Gli animali non sono peluche: impariamo a rispettare la loro diversità se vogliamo davvero contribuire alla loro tutela. Scorrendo i post sui social ci si rende conto di come sia in atto, troppo spesso, un transfer emotivo nei confronti degli altri animali diversi da noi. Con una dilagante umanizzazione che sovrappone e confonde i piani, mescolando questioni e contribuendo a creare confusione.La loro e la nostra salvezza sta proprio nel riconoscimento della diversità e proprio questo serve a consentirci di difenderli in modo intelligente. Non creando quel rapporto emotivo che seppellisce conoscenza e rispetto sotto una coltre di improbabile quanto inappropriato affetto.
Ogni giorno si leggono vere dichiarazioni di amore verso lupi e orsi, che però,purtroppo, non sono supportate da una conoscenza delle necessità specie specifiche. In questo modo i nostri bisogni diventano i loro bisogni, le nostre ansie diventano le loro ansie. Ma questo porta a individuare forme d’aiuto che spesso peggiorano le loro condizioni di vita senza costituire un vantaggio. Questo comportamento viene attuato nei confronti di animali che sono molto distanti da noi, come i selvatici, ma anche verso gli animali di casa. Che vengono spesso soffocati sotto una coltre di affetto che impedisce loro di vivere da cani e porta a aberrazioni estetiche per farli assomigliare a bambini.
L’amore diventa così solo un fardello ingombrante per chi è costretto a subirlo, come gli animali con i quali dividiamo la vita. Costituendo anche un motivo di scherno, che spesso ridicolizza proprio quelle battaglie messe in atto per la tutela dei diritti degli animali.
Gli animali non sono peluche e per questo abbiamo il dovere di imparare a conoscere le loro esigenze
Un esempio per tutti è stata l’ondata emotiva venutasi a creare dopo la vile uccisione dell’orsa Amarena. Che ha lasciato, come tutti sanno oramai, due cuccioli orfani. Dopo questo terribile gesto è cresciuto il bisogno di umanizzazione dei piccoli. Orfani e senza madre, in mezzo a mille pericoli per colpa degli uomini. Unendo nel calderone sia chi ha sparato che quanti non li mettono al sicuro. Valutando nel cibo e nella protezione la soluzione contro ogni pericolo, senza riflettere che la loro cattura si potrebbe tradurre in una cattività senza fine. Un danno per gli orsetti che si vorrebbero difendere.
Gli animali selvatici non sono uomini e i loro cuccioli non sono bambini. Quello che sembra voler sottolineare una banalità è invece una realtà che corrisponde ai sentimenti di moltissime persone. Ma la natura ha regole diverse, sicuramente non temperate dell’emotività, ma asservite alle necessità della perpetuazione della vita. Un’esistenza completamente differente dalla nostra, costituita da grandi difficoltà nel vivere che stanno alla base, fra l’altro, dell’alto tasso di mortalità nei cuccioli di tutte le specie. Accorciando anche la vita anche degli animali adulti, che risulta essere ben più breve della longevita raggiungibile da soggetti della stessa specie se tenuti in cattività. Una vita lunga ma non paragonabile alla pienezza di quella in libertà, perdendo per un animale selvatico la ragione di essere vissuta.
Non serve mettere cibo per i cuccioli di Amarena e non bisogna mai alimentare gli animali selvatici
Il pericolo di una cattività permanente è una delle ragioni per le quali non si catturano i cuccioli di Amarena, cercando sempre di non creare inteferenze nelle vite degli animali selvatici. Per lo stesso motivo si cerca, con ogni mezzo, di far comprendere alle persone che non bisogna dare cibo agli animali selvatici, per non renderli condidenti nei nostri confronti. Provando a spezzare quella catena in cui si mescola si mescola scarsa conoscenza dei bisogni con la soddifazione della propria emotività. Cercando a tutti i costi un rapporto, che nella realtà è un condizionamento: la volpe a bordo strada non aspetta di giocare con l’uomo ma solo di ricevere cibo. Rischiando di diventare la stessa volpe che guarderemo con occhio triste, quando sarà uno dei tanti cadaveri di animali investiti sulle strade, dalle quali dovrebbero invece star lontani.
Un orso o un lupo non vogliono essere amati, vorrebbero solo essere rispettati per poter condurre, liberi, la loro esistenza
In questo sta l’importanza di fare divulgazione, di lavorare per ottenere una diffusione delle informazioni che permetta di ampliare la platea di quanti conoscono gli equilibri naturali. Comprendendo che per poter vivere in pace i nostri mondi, umani e non umani, devono restare il più possibile lontani, senza rapporti ravvicinati. per la loro salvezza e la nostra sicurezza. Quella conoscenza che porta a riconoscere come falsa la convinzione che sia la carenza di cibo a portare orsi e lupi a frequentare gli abitati. Quasi si trattasse di una sorta di comportamento disperato dettato dalla carenza di risorse alimentari che, invece, non mancano.
Lasciare cibo nei boschi per alimentare i cuccioli del’orsa Amarena, per esempio, potrebbe non solo essere inutile, ma diventare controproducente, contribuendo a attrarre altri animali che potrebbero mettere in pericolo le loro vite. Il vero modo intelligente di aiutare la natura e tutelare la biodiversità è sempre quello di intervenire il meno possibile per non incrinare gli equilbri. Un colpo di fucile ha spezzato la vita di Amarena e messo in pericolo i cuccioli, ma non esistono interventi umani in grado di riavvolgere il film all’attimo prima dello sparo. Non serve cibo, serve rispetto e attenzione, dove l’intervento umano deve sempre essere visto come l’ultima possibilità.
Per far aumentare nell’opinione pubblica la consapevolezza sull’importanza e l’urgenza di difendere gli animali e i loro diritti dobbiamo essere credibili. Per questo occorre evitare di riversare le nostre emozioni su animali incolpevoli, che ne farebbero spesso volentieri a meno. Gli animali selvatici e quelli che vivono con noi non possono leggere i commenti sui social pieni di cuoricini, mentre vorrebbero poter condurre in pace le loro pur complesse vite. Non cercano fan e like, ma soltanto l’opportunità di potersi comportare secondo le proprie esigenze etologiche. Un desiderio più che comprensibile, che troppe volte mettiamo in secondo piano.
Suini uccisi e peste africana: ora bisogna mettere al sicuro i santuari, perchè non si ripetano i fatti accaduti nella struttura di Cuori Liberi a Zinasco. Una vicenda, quella dell’abbattimento degli animali, preceduta da scene di violenza non giustificabile, che hanno fatto il giro del mondo. Suscitando commenti e sentimenti controversi, fra quanti hanno ritenuto inevitabile l’abbattimento dei suini e chi lo ha ritenuto un abuso. Quello che è certo è che più di qualcosa non ha funzionato e alla fine, come sempre, a trovarsi in mezzo sono stati gli animali. Diventati innocenti oggetti o soggetti, a seconda del pensiero di chi li guarda, di una contesa che li ha sopraffatti.
Non scrivo quasi mai sotto la pressione della cronaca: preferisco aver il tempo di riflettere e di ordinare i pensieri. Così ho avuto modo di leggere i pareri di veterinari che giustificavano queste uccisioni per arginare la diffusione della PSA. Ma anche moltissime dichiarazioni diverse, sino a arrivare alla naturale contrarietà degli attivisti. Sicuramente il 20 settembre verrà ricordato come un giorno terribile per i suini dei santuari, che deve portare a fare delle riflessioni sulla normativa e sulla biosicurezza.
I suini uccisi erano animali da compagnia, non inseriti in un circuito di allevamento per carne, ma sempre suini che potevano ammalarsi (come è successo) e infettare. Se l’uccisione seguita all’irruzione sia davvero servita a arginare l’avanzata della PSE fatemi dire a chiare lettere che il mio pensiero è NO, non è servita. Non voglio entrare nel merito di tecnicismi, ma solo basare la mia opinione su quello che i filmati hanno mostrato. Un’azione lontanissima dalla biosicurezza che forse ha contribuito più a propagare il virus che non a fermarlo. Quindi una prova di forza inutile, violenta e insensata.
Suini uccisi e peste africana: quando un’azione di polizia sanitaria ottiene il risultato contrario
Non era necessario uno stratega militare per comprendere quanto quell’irruzione sarebbe stata controproducente rispetto allo scopo dichiarato. Un’autorità sensata avrebbe offerto un tavolo di trattativa, avendo la consapevolezza che i custodi degli animali non sarebbero restati, giustamente, a braccia conserte a attendere l’abbattimento dei loro suini. Invece è stato attuato il muro contro muro. Gesto sconsiderato, di chi rappresentando la sanità della nazione, sembrava più volersi vendicare per un torto piuttosto che esercitare un’azione di prevenzione. Facendosi accompagnare da poliziotti che di biosicurezza sanno certamente poco, ai quali la situazione è sfuggita di mano: secondo errore è stato creare una piccolissima ripetizione del G8 di Genova.
Gli animali dovevano essere comunque, in un modo o nell’altro, abbattuti? Forse, ma se anche così fosse certo non usando strategie così mal congeniate. Ora qualcuno, magari un magistrato che tanto sarà investito obbligatoriamente di questa vicenda. potrebbe investigare anche sulla mancanza di buone pratiche e su un uso/abuso della forza, in un contesto sbagliato sotto ogni punto di vista. Un uso della forza che mi lascia sgomento, non solo da persona che si occupa di diritti animali, ma da cittadino che vorrebbe guardare alle forze di polizia sempre e comunque con stima e fiducia. Certamente non con paura!
Facile dire che gli animalisti sono emotivi e non capiscono l’emergenza! Ma dall’altra parte della barricata il corto circuito è evidente
La speranza è che ora, per la giustizia in cui tutti vogliamo credere, ognuno trovi il suo giudice a Berlino. Perché se così non fosse, se questa vicenda venisse sepolta con volontà di oblio, sarebbe veramente vergognoso. Lo Stato ha dei doveri e chi ha gestito la piazza dello scontro di fronte a “Cuori Liberi” deve essere oggetto di serie valutazioni. Il 20 settembre sono stati abbattuti i maiali ma, purtroppo anche il buonsenso ne è uscito pieno di lacerazioni e ferite.
Ora bisogna lavorare per un cambiamento della norma, che dia maggiori garanzie agli animali dei santuari. Fissando regolamenti seri per la biosicurezza, visto che detengono animali di specie uguale a quelli d’allevamento per usi alimentari. Non potendo dimenticare quindi che anche queste strutture, pur di recente normate in modo diverso e non più considerate allevamenti, detengono suini, bovini, caprini, etc. . Realtà che sono sempre e comunque soggette alla vigilanza del Servizio Sanitario Nazionale, che forse già poteva e doveva dare prescrizioni.
Le proteste pacifiche sono azioni di disobbedienza civile che devono essere riconosciute come portatrici di un valore. Specie quando cercano di accendere i riflettori non su un problema ma su un dramma del quale si parla molto, facendo in realtà troppo poco. I cambiamenti climatici sono una certezza, i danni economici che porteranno sono ampiamente previsti dal mondo della finanza etica, ma anmche dalle Nazioni Unite, e le migrazioni in atto sono la punta dell’iceberg. Ma la confusione dell’informazione porta a omologare questi attivisti a dei black block, come se spaccassero e vandalizzassero tutto quello che trovano sul cammino.
In un mondo digitale chi scende sul terreno del reale sarebbe già da apprezzare solo per questo. Per la volontà dell’esserci, di metterci la faccia, di esporsi a dei rischi e di subire processi e denunce. In un paese come il nostro che sembra aver perso il senso del valore della libertà, spesso troppo occupato a subire l’informazione, senza avere voglia di indagare le ragioni dei fenomeni. I cambiamenti climatici sono diventati un’emergenza in Europa, ma si trasformano in drammi nei paesi più poveri del mondo. Mentre l’economia e la politica ci rassicurano che stiamo efficacemente combattendo le cause delle mutazioni del clima e ionvece stiamo andando a sbattere su una nave senza pilota.
Criminalizzare le proteste non cambia la realtà e Ultima Generazione non fa eco-terrorismo
Quando i blocchi stradali li fanno gli operai che difendono il posto di lavoro sono azioni illegittime ma scusabili, perché devono mantenere la famiglia. Ma se si tratta degli attivisti, siano di Ultima Generazione che di quanti difendono i diritti di tutti gli esseri viventi, allora le cose cambiano. Stranamente il lavoro è un diritto, ma voler avere un futuro sembrerebbe di no! Così queste proteste diventano inutili, fatte da ragazzini (e non è vero) che vogliono avere visibilità. Mentre il loro esserci, con sistemi di pacifica disubbidienza civile, ci aiuta a ricordarci che ogni giorno perdiamo biodiversità. Eppure la disobbedienza civile ce l’ha insegnata il Mahatma Gandhi, anche con il suo motto “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
Nelson Mandela, indimenticato primo presidente del Sud Africa post segregazione razziale, fu premiato nel 1993 con il Nobel per la pace. Un giusto riconoscimento, dato a un uomo che aveva messo in atto azioni, anche violente, per lottare contro la segregazione dei neri. Per usare un paradosso ha lottato con mezzi estremi per un mondo che non voleva vedere più in bianco e nero, come ricorda questo brano tratto da un articolo di Daniele Scalea:
Perché è vero che Mandela è stato l’uomo della resistenza non violenta, della pacificazione, della “nazione arcobaleno”, dell’amnistia, della filantropia. Ma è stato anche e non solo quel Mandela. C’è pure un’altra faccia di Mandela, quella del militante, del cospiratore, che non è opposta ma complementare alla prima. Che non è il rovescio “cattivo” della faccia “buona”. È altresì il Mandela che non si vuole ricordare perché, alla nostra società assuefatta alla violenza ignobile e insensata che viene compulsivamente narrata o descritta dai TG ai film, dalla musica ai videogiochi – a questa società tanto caratterizzata dalla violenza fine a se stessa, riesce invece difficile accettare e riconoscere l’esistenza di una violenza “nobile”, una violenza motivata dal senso di giustizia e tendente al giusto.
Il rispetto delle leggi è un valore assoluto, ma bisogna anche valutare le motivazioni delle trasgressioni
Non condividere il principio che il fine giustifica i mezzi non può significare voler essere ciechi. Abbiamo bisogno di innescare reali cambiamenti e se fossimo davvero attenti non avremmo necessità di avere queste proteste per averne consapevolezza. Invece insistiamo nel divorare la terra a morsi per non turbare economia e finanza, continuando a distruggere l’ambiente che avremmo dovuto da tempo imparare a proteggere. Un terzo della superficie di mari e oceani andrebbe tutelata e liberata dalle attività umane, mentre noi continuiamo a comportarci come i tarli inconsapevoli, sull’unico tavolo che ci ospita.
Se si vuole togliere di mezzo gli attivisti che difendono l’ambiente il sistema è facile: leviamogli la terra sotto i piedi della protesta, cominciando a fare cose per davvero e smettendo di raccontarle soltanto. Alla politica, ma non soltanto, manca il senso dell’urgenza che non sfugge invece, e per fortuna, a un’altra grande parte del paese, che certo non è composta da eco-terroristi. Chi si occupa e si preoccupa di difendere ambiente e biodiversità nell’Antropocene non è un profeta di sventure, una fastidiosa Cassandra. E’ soltanto una persona che racconta facili previsioni, non per vaticinio ma per senso della realtà, del tempo presente che stiamo vivendo.
Ragionamenti da fare ora, perché quello che tanto preoccupa l’Europa non diventi davvero un’invasione: non più migranti economici e richiedenti asilo, ma torme di migranti climatici disperati e affamati. E non ci sarà più tempo per il futuro, neanche prossimo, perché la realtà potrà essere descritta solo utilizzando il presente indicativo. E non sarà un bel racconto!
Abbattimento o captivazione permanente: questo è il dilemma che spesso ci si rifiuta di affrontare. Un tema spinoso che frequentemente non viene dibattuto, quale parlano mal volentieri gli addetti ai lavori in ogni schieramento. Un punto sul quale, invece, sarebbe opportuno pronunciarsi, dopo un ampio dibattito tecnico, non emotivo. Se è vero che decidere per chi non è in grado di farlo è sempre molto difficile, è altrettanto vero che non fissare regole può diventare un paravento. Dietro al quale nascondere la sofferenza. Garantire la vita anche a costo di negare il benessere è una scelta che mi risulta difficile da condividere.
Vale per tutti gli animali destinati a trascorrere una vita dietro le sbarre e per questo credo sia importante, ma anche doveroso, fare una riflessione. Senza preconcetti, basati sulla ponderata valutazione laica di pro e contro fatta da una pluralità di esperti. Se è vero che la cattività, nel caso degli orsi, allontana dalla violenza di uno sparo è altrettanto vero che mette al riparo le nostre coscienze e sensibilità, ma non le loro vite. La sofferenza del giorno per giorno, con gradienti vari e diversi, è la stessa che condanna a morire di noia gli animali di uno zoo. Quella che resta visibile nei sentieri scavati dalle zampe sul terreno dei recinti, sempre gli stessi, percorsi in modo ripetuto, quasi ossessivo.
Scelta sicuramente difficile come tutti i pensieri che le gravitano intorno, che non può essere elusa semplicemente al grido di “lasciamoli liberi”. Certo questa sarebbe la soluzione migliore, ma quando si arriva a un punto nel quale bisogna scegliere fra vita e morte, lì non ci sono terze vie. Non esiste più, nemmeno per noi, la possibilità di non esprimerci, di non scegliere, in nome dell’etica o della convenienza. Un bivio di fronte al quale bisogna decidere che strada imboccare, nell’interesse degli animali.
Abbattimento o captivazione permanente: scelte che mettono di fronte a un bivio etico
Del resto che la cattività rappresenti molto spesso una prigionia dai risvolti crudeli viene detto a chiare lettere quando, ad esempio, si parla di zoo e delfinari. Ma non in modo netto quando i detenuti sono rinchiusi a vita in altri luoghi, come santuari per orsi, solo per restare sul tema, o anche canili. Il baratto etico che sta alla base di questa differenza di valutazioni è la giustificazione dell’aver salva la vita, ma non è la “motivazione” della detenzione a cambiare o attenuare la sofferenza. La differenza cambia quando vi è una piena e consapevole analisi del benessere garantito dalle condizioni di detenzione. Che non può essere valutato solo sulla base dello spazio a disposizione o su criteri estetici.
Per fare una valutazione complessiva occore tenere presente l’etologia della specie e la sua origine: un conto è un animale selvatico che proviene da anni di cattività o da riproduzioni in cattività e altro è un soggetto di cattura. Bisogna valutare le caratteristiche della struttura e le condizioni di vita offerte, il tempo che si può dedicare alle interazioni o alla creazione di continui diversivi. In cattività la noia uccide, prova un animale nello spirito, lo riduce a un simulacro dell’animale che sarebbe stato se avesse vissuto libero.
Esistono sistemi per realizzare misurazioni e valutazioni scientifiche sul livello di stress che genera la cattività, esaminando per esempio i livelli del cortisolo.
La definizione di “benessere animale” e le modalità di determinazione di tale parametro sono ancora ampiamente dibattute. C’è, però, una generale concordanza sul fatto che una condizione di malessere dia origine a variazioni fisiologiche e comportamentali che possono essere rilevate e misurate. Tra i parametri endocrini, il più studiato è, senza dubbio, il cortisolo, in quanto connesso con l’attivazione dell’asse ipotalamico-pituitario-surrenale in condizioni di stress e quindi ritenuto indicatore ideale di benessere, benché debba essere utilizzato con cautela in quanto un aumento dei livelli di questo ormone non si verifica con ogni tipo di stressor.
La questione è complessa e certo l’articolo non ha la pretesa di indicare la via, ma solo di stimolare una vera e complessiva riflessione che faccia aprire un dibattito a tutto tondo. La difesa della vita oltre ogni altra considerazione non può essere vista come una motivazione sufficiente a far detenere a vita animali nelle strutture. La difesa della vita non può diventare una motivazione che giustifichi la detenzione in qualsiasi condizione, non può far chiudere gli occhi davanti alla sofferenza.
Su questi temi un dibattito serio sarebbe auspicabile e urgente, coraggioso e necessario. Un dovere ineludibile, specie nel momento che sono sempre gli uomini a decidere cosa tocchi in sorte agli animali.
Al lupo, al lupo e l’Europa risponde con una minor protezione, perché le elezioni si stanno avvicinando rapidamente e il consenso è importante. Specie quando un provvedimento di contenimento del predatore è al centro delle richieste di allevatori e cacciatori, lobby in grado di orientare i voti. In uno scacchiere politico che vede le forze politiche progressiste minacciate dall’avanzamento dei partiti dell’ultra destra, da sempre più vicine a queste corporazioni. In questo gioco politico il lupo, inconsapevolmente, diventa merce di scambio, non più componente fondamentale dell’equilibrio faunistico.
Dopo decenni di tutela assoluta, dopo fiumi di parole spese per difendere l’importanza dei predatori la politica, assediata da ben altri predatori, sta per capitolare. Contro il parere non soltanto di animalisti e ecologisti ma anche della scienza, preoccupata da questa ennesima manifestazione di asservimento politico. Il riconoscimento dell’importanza di specie apicali come i predatori, gli unici capaci di tenere efficacemente sotto controllo le popolazioni di ungulati, non basta più per mantenere alta la guardia.
Da una parte si racconta all’opinione pubblica l’importanza di piani europei di ristorazione della natura e di obbiettivi di lungo periodo, dall’altra si subiscono le pressioni dei gruppi di potere. In mezzo i cittadini, che poco si informano, quasi per nulla partecipano e spesso si abbeverano a fonti inquinate di informazione. Vittime, ma non innocenti, di un potere politico che prima ha saputo creare le condizioni per allontanare le istituzioni dai cittadini e poi ha usato il disinteresse per restare in sella.
Al lupo, al lupo e l’Europa risponde cavalcando un ipotetico pericolo derivante dai predatori, nascondendo i vantaggi della presenza
La protezione dei lupi, garantita dalla Direttiva Habitat del maggio 1992, nasce per una difesa di una specie che in quegli anni era in preoccupante declino in Europa, essendo vicina al reale pericolo di scomparsa. Ora le condizioni sono mutate, anche nel nostro paese, e la popolazione di questi predatori ha avuto una sorprendente ripresa. Ma se il lupo in Europa non è più a rischio di estinzione questo non significa che possa essere abbattuto senza pensieri. Esiste infatti una logica di tutela delle specie in pericolo e un’altra che dovrebbe valutare il rapporto costi benefici derivanti dalla presenza del lupo. Senza contare la destrutturazione dei branchi, causata dagli abbattimenti, che potrtebbe essere causa di nuove problematiche.
“La concentrazione di branchi di lupi è diventata un pericolo reale per il bestiame e potenzialmente anche per gli esseri umani” Ursula von der Leyen Presidente Commissione europea
Poche parole ben studiate, capaci di riassumere e di sintetizzare in un concetto penetrante che il lupo rappresenta un pericolo per l’economia, ma anche per la nostra specie. Un inciampo politico ponderato, per chi ha sempre parlato dell’importanza di avere una nuova visione europea di rapporto con l’ambiente e gli altri viventi. Parole che nascondono la promessa elettorale di voler tenere in conto le esigenze delle componenti agricole e venatorie. Senza tenere in conto l’importanza della presenza dei predatori per garantire gli equilibri faunistici.
Sta crescendo la strategia della paura, suscitando timori immotivati nei cittadini verso i lupi
Nella schizofrenia che spesso accompagna in questi ultimi anni la politica si parla dei pericoli derivanti dalla presenza dei lupi e della necessità di contenere cinghiali e altri ungulati. Mettendo quindi sullo stesso piano comunicativo sia la terapia che la patologia. La malattia è stata creata dal mondo venatorio, che ha immesso cinghiali balcanici di grossa taglia e molto prolifici e che gestisce gli abbattimenti con logiche perverse, agevolando la loro crescita. La cura sono i lupi, che hanno nei cinghiali la loro preda d’elezione, contribuendo a ridurne il numero in modo davvero efficace e selettivo. Su questo argomento sono intervenute associazioni come Euclipa, nata con il proposito di diffondere la conoscenza e la consapevolezza sulla crisi climatica ed ecologica.
In quanto predatore apicale, il lupo svolge un ruolo fondamentale negli ecosistemi europei e ha un impatto diretto e indiretto sulle popolazioni di ungulati (come cervi e cinghiali), che ne costituiscono la loro preda principale. Una funzione che dovrebbe essere considerata anche sul lato economico visto che, solo in Italia – e come afferma la stessa Coldiretti – questi animali sono responsabili di milioni di euro l’anno di danni. Oltre alla predazione diretta, i lupi influenzano il comportamento delle loro prede attraverso la cosiddetta” ecologia della paura”, ovvero la loro sola presenza induce cambiamenti comportamentali e fisiologici nelle specie predate creando un impatto positivo sul paesaggio e consentendo a molte altre piante e animali di prosperare.
Brano tratto da un comunicato lanciato da Euclipa
La realtà sta nel fatto che la tutela dell’ambiente e il contrasto allo sconsiderato strapotere delle corporazione agricole e venatorie ha bisogno dei cittadini. Senza la forza di questa massa critica, che grazie al potere del voto sarebbe in grado di orientare le scelte, la battaglia rischia di essere persa in partenza. Solo la partecipazione capillare e la nascita di una nuova coscienza sociale potrà portare a un effettivo cambiamento di strategia. Obbligando la politica a confrontarsi con cittadini consapevoli e interessati al loro futuro.
Uccisa in Abruzzo l’orsa Amarena, madre dell’orso Juan Carrito, l’orso confidente più famoso di Europa, morto a seguito di un investimento stradale nel gennaio di quest’anno. La storia di Amarena parte da molto lontano ed è quella di un’orsa diventata confidente a causa delle continue interazioni con gli uomini. Quando un orso come Amarena perde la naturale e auspicabile diffidenza nei confronti dell’uomo, diventa un fenomeno da baraccone per troppi, nonostante l’incessante lavoro del Parco per proteggerla. Raggiungendo il culmine della pressione nell’estate del 2020, quando Amarena partorì ben 4 cuccioli e nella zona dei paesini della Marsica scoppiò il caos.
In un contesto diverso, come il Trentino, un’orsa come Amarena sarebbe già stata catturata o uccisa, ma in Abruzzo la gestione è diversa. E diversa è anche l’accettazione delle persone nei confronti degli orsi, che non può essere messa in discussione per il gesto criminale di un singolo. La comunità abruzzese conosce l’importanza degli orsi, sia sotto il profilo ambientale che economico. Gli orsi, in Abruzzo, sono una fonte di ricchezza, grazie anche a un ente parco che fa tantissime attività divulgative e educative. Facendo comprendere l’importanza di un patrimonio unico come quello degli orsi marsicani.
Uccisa in Abruzzo l’orsa Amarena, una perdita per la biodiversita e una sconfitta per gli uomini
Ancora prima di conoscere l’esatta ragione che ha portato un residente a sparare a Amarena si è già messo in moto il solito circo mediatico. Fatto di attacchi a 360°, di affermazioni a effetto fatte senza nemmeno conoscere ancora la realtà. Dove tutto si focalizza sulle responsabilità di chi ha sparato e sull’odio che la politica, e questo governo in particoolare, cavalcano per interesse elettorale. Con la solita invocazione a pene e processi esemplari, che non ci saranno perché i giudici possono solo applicare la legge, non possono inventarsela. E le leggi a tutela della fauna sono da sempre fatte per non punire troppo severamente cacciatori e bracconieri.
Certamente chi ha ucciso Amarena andrebbe punito in modo esemplare. Non può essersi trattato di un atto di legittima difesa perché il responsabile del gesto poteva restare chiuso in casa. Ma le colpe, come accadde per Juan Carrito, sono tante e eticamente non meno gravi, in senso ovviamente relativo, di quelle dello sparatore. Non possiamo dimenticare, e facendolo non aiuteremmo certo gli orsi e gli animali selvatici in generale, delle responsabilità di quella moltitudine di umani che hanno comportamenti sbagliati. Talvolta per una mancata riflessione, per assenza di educazione naturalistica, altre volte per ragioni meno nobili.
Ci sono persone che hanno atttirato deliberatamente, con azioni o omissioni, Juan Carrito e Amarena nei paesi, lasciandogli cibo, non gestendo i rifiuti, usando in qualche caso esche attrattive per fare fotografie. Una realtà denunciata da tempo, sulla quale non si è riusciti a incidere in modo importante. Come la gestione dei rifiuti che molte amministrazioni comunali non hanno ancora reso sicura, con strutture che impediscano ai selvatici di nutrirsi della frazione umida.
Amarena è stata uccisa perché “orso confidente”, cioè un morto che cammina, come sa bene chi si occupa di convivenza con i grandi carnivori
Amarena è stata uccisa da un criminale, ma non è morta per questo. E’ morta perchè era stata resa confidente, Se non si riesce a comprendere la causa e si continua a guardare solo all’effetto non faremo grandi passi avanti nella coesistenza. L’anello debole della catena non è chi ha sparato, ci saranno sempre folli e delinquenti, ma chi ha reso Amarena un’orsa che portava a spasso i suoi cuccioli nei paesi. Certo l’indignazione ha sempre più presa del ragionamento e essere forcaioli paga sempre in termini di consensi.
Un colpevole soddisfa, lava le cattive coscienze e permette ragionamenti semplici, come quelli contenuti in molti comunicati stampa che sto ricevendo in queste ore.
Se però si vede un obiettivo di periodo sarebbe più utile interrogarsi sui motivi di questa nuova sconfitta. Comprendendo che prima della rigorosa applicazione della legge sarebbe necessario far capire, anche a chi invoca la forca, che l’unica reale difesa della fauna è il rispetto, delle regole e degli animali. Occorre un cambiamento di rotta perché gli orsi non sono belli e non sono peluche. Non bisogna comportarsi come fossero personaggi dei cartoni animati, diversamente ci scappa il morto.
La natura selvatica è meravigliosa ma perché continui a esistere va osservata a distanza, come ospiti rispettosi che entrano a casa d’altri, non come vocianti spettatori che entrano al circo. Bisogna capire i contesti, occorre una cultura nuova e molto più profonda di quella attuale. La vita sul pianeta non è un gigantesco social, dove tutto si fonde e perde contorno. Occorrono separazioni nette e consapevolezza, se no è davvero inutile piangere sul sangue dell’orsa Amarena. E ora vediamo cosa si potrà fare per salvare i suoi cuccioli, ancora troppo piccoli per essere autonomi. Un altro enorme danno per la popolazione veramente esigua di orsi marsicani.
Lupi, predatori e branchi usati per descrivere violenze: parole in libertà con poco senso e troppi pregiudizi. Cercare di ricondurre comportamenti di sopraffazione, di mancato riconoscimento del valore e del rispetto dovuto a ogni individuo a riferimenti animali è un grave errore. Sotto il profilo scientifico con ogni certezza, ma anche come paragone diseducativo verso gli animali, usati in similitudini imbarazzanti. Che finiscono per stimolare, oltretutto, paura verso alcuni animali, che diventano così la rappresentazione della crudeltà.
Sarebbe ora di riconquistare il rispetto per le parole, con un linguaggio meno improntato ai luoghi comuni e più attento nel modo di fare comunicazione. Per evitare che i responsabili di uno stupro diventino branco, quasi a voler giustificare il comportamento individuale a causa del numero dei partecipanti. Una sorta di frenesia collettiva dove si finisce per assolvere le responsabilità di ogni soggetto, trasferendo la colpa a un branco di (umani) lupi. Andando a ripescare come sempre la storia di Cappucceto Rosso, che è favola intrisa di luoghi comuni e della narrazione di una malvagità falsa quanto stucchevole.
Se Cappucceto Rosso non fosse andata nel bosco da sola, per giunta vestita di rosso, il malvagio lupo non le avrebbe teso l’agguato. Nonostante il crescere della cultura scientifica e dell’etologia il nostro lessico non sembra essersi evoluto, evidentemente incapace di creare o usare meglio aggettivi e sostantivi. Senza necessità di doversi rifare agli animali, addebitando loro comportamenti biasimevoli. Così gli approfittatori diventano sciacalli o avvoltoi, i cattivi sono lupi o iene e i gruppi di ragazzi sbandati si trasformano in branchi di predatori.
Lupi, predatori e branchi sono usati per esiliare persone senza morale dal mondo degli uomini a quello degli animali non umani
Un concetto di alterità sembra voler paracadutare i colpevoli di atti vigliacchi dal nostro contesto sociale a quello degli animali che spaventano. Contribuendo, nel cercare questo allontanamento culturale, ad alimentare le paure verso molti animali, come i lupi, già abbastanza vessati da certa stampa. Eppure il branco è struttura sociale che protegge, che tutela i suoi appartenenti, con regole e gerarchie, quasi sempre con una leadership, attuando decisioni consapevoli che non accadono mai per caso. Ma oramai certi termini hanno lasciato il terreno della scienza e dell’etologia, per atterare nel mondo dove informazione e disinformazione si fondono.
Un mondo di mezzo, proprio come quello di molti dei protagonisti di queste brutte storie. Una realtà generata non dalla fantasia di uno scrittore ma dalla distrazione della società. Dall’aver abdicato al dovere di educare i giovani al rispetto, impedendo che la prevaricazione e la violenza si trasformino in un valore da emulare. Dal non aver insegnato che il rispetto va oltre all’apparenza, che l’aspetto o lo stato di una persona, ma anche di un animale, non autorizzano a considerarla una cosa, inanimata, incapace di soffrire. Una realtà che permea la cultura della nostra società, con una violenza spesso agita prima sugli animali e poi sulle persone.
Scientificamente i comportamenti violenti contro gli animali vengono visti come predittivi del possibile salto di specie, pericoloso come quello compiuto dai virus. Ma noi siamo più portati a ignorare che ad approfondire e così i responsabili di crimini violenti contro gli animali non vengono seguiti né vigilati. Lasciando che la violenza sia libera di crescere senza controllo, diventando capace di rovinare per sempre le vite, sia delle vittime che dei carnefici.
La violenza non si autogenera, ma certamente si autorigenera quando vengono sottovalutate le cause
In natura il branco mette in atto strategie per vivere e difendere i suoi membri, il cosiddetto branco umano cerca di sopperire alla debolezza degli individui unendo la vigliaccheria dei singoli, dandogli corpo e aggressività. Portando a pessima conclusione quella cultura che ancora oggi, purtroppo, pone la donna un gradino sotto l’uomo, che ancora arriva a identificare in una minigonna una colpa. Quella cultura alimentata per decenni da programmi televisivi, film e giornali che hanno divertito (poco), costruendo un modello stereotipato e ottuso dei valori sociali.
Bisognerebbe investire per demolire modelli sbagliati, per diffondere valori e conoscenza, senza lasciare enormi sacche di degrado sociale e culturale. Cercando di intercettare la violenza quando si manifesta, per impedire che si amplifichi, che contagi con racconti e emulazioni. Comprendendo realmente che il capitale umano più significativo di una società è rappresentato dai suoi giovani, che vanno difesi e fatti crescere con l’idea che il rispetto debba essere a tutto tondo, abbracciando ogni mondo e ogni tipo di diversità.
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