Senza rispetto restiamo prigionieri in gabbie dove i valori positivi come l’empatia sono visti come forme di debolezza. Una sorta di resa verso i buoni sentimenti, che non permettebbe la scalata dell’individuo verso il successo. Un concetto tanto malato quanto pericoloso, che sta permeando la nostra collettività, come purtroppo le cronache ci restituiscono ogni giorno. Le conzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzdanne verso ogni tipo di violenza si sprecano, riempiono le pagine dei media, spesso con termini che riportano al comportamento degli animali, che però non hanno mai comportamenti di aggressività gratuita.
Tutto parte da un vuoto di valori causato da una voragine educativa, dal mancato insegnamento di valori fondamentali come rispetto, compassione, equità. Da social che straripano di esempi negativi, dove il successo non è meritato, ma spesso soltanto aggressivamente strappato e dove i valori sono diventati possesso, fama e denaro. Quando non si riconoscono le colpe di aver creato un sistema educativo inefficace si passa, sempre, a invocare strumenti eccezionali e spesso violenti nei confronti dei responsabili. Senza soffermarsi a riflettere sul fatto che sono gli esempi a creare comunità diverse e non (soltanto) le azioni repressive.
Ogni volta che un fatto grave viene commesso ai danni di soggetti fragili, siano uomini o animali, viene sempre invocato un inasprimento delle pene. Ma non sono le sanzioni a impedire la violenza, sia perché vengono applicate quando il fatto è già accaduto, sia perché le pene già ci sono ma non hanno il valore di deterrenza auspicato in una società che spesso non conosce norme e regole.
Senza rispetto restiamo prigionieri dei cattivi esempi che diamo ogni giorno
Protestiamo contro l’abbandono degli animali domestici, ma continuiamo a trasportare animali vivi con ogni condizione metereologica per ragioni esclusivamente economiche. Sappiamo che la crudeltà verso gli animali rappresenti un comportamento predittivo di futuri atti violenti sugli uomini, ma preferiamo ignorare il dato. Conosciamo la sofferenza degli esseri viventi imprigionati, ma poco facciamo per evitare strutture sovraffollate e inumane per uomini e animali. Sapendo, per esempio, che le recidive di comportamenti criminali negli uomini dipendono anche da carceri che non rieducano, da violenze che dimostrano che l’unica legge è quella del più forte.
In questa schizofrenia comportamentale, fra abusi e violenze, stupri e illegalità, l’unica invocazione sembra essere l’inasprimento delle pene. Dimenticando che servono più scuole, migliore educazione, dimostrazioni, specie in politica, di valori etici non condizionati da tornaconti. Stiamo ritornando alla società forcaiola del vecchio West, anziché cercare di dirigerci verso la creazione di una società che rispetta le regole, insegna valori e, soprattutto, si comporta conseguentemente a quanto promette.
La vera rivoluzione culturale ci sarà quando ogni componente farà la sua parte
“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” predicava l’apostolo della non violenza, il Mahatma Ghandi. Che è stato capace di ottenere cambiamenti epocali grazie a un esempio, positivo, vero. Che ancora oggi tutti ricordano ma pochi seguono, con tutte le difficoltà che questo comporta, racchiuso nella nostra natura umana, tanto meravigliosa quanto contraddittoria. Mai come in questo periodo ci sarebbe bisogno di esempi, di schiere di persone di buona volontà che si adoperano per vedere il cambiamento. Per far risalire i valori dell’etica nella politica e quelli della gentilezza nella vita, anche in quella di tutti i giorni.
Considerando che i danni fisici sono visibili, ma che quelli causati nelle anime restano invisibili ai più, ma comunque troppo spesso insanabili per chi li ha subiti. Senza poter dimenticare che in questo tempo social spesso le tastiere fan più danni della spada e le parole non solo feriscono, ma diventano un perticoloso incitamento alla violenza e all’odio. Ci salveremo solo se lo faremo tutti insieme, difendendo i diritti e dando il giusto riconoscimento a doveri e valori!
Cani liberi o randagi di quartiere: una scelta che non deve essere considerata la soluzione auspicabile al problema, annoso del randagismo. Una questione spinosa da affrontare perché stimola polemiche: ai due poli estremi quanti vorrebbero vedere tutti i randagi in canile e chi, invece, pensa vadano lasciati liberi. Cani lasciati liberi di vagare, magari sterilizzati e sotto controllo veterinario quando possibile, visti come invidui che possono declinare in vari modi il loro rapporto di coesistenza con gli uomini. In una sorta di limbo che sta fra quello dei “domestici” e gli animali selvatici, definizioni che per alcuni rapprresentano solo categorie insensate,
D’altra parte nemmeno la via del randagio controllato è sempre felice e anche questa si presta a creare problemi, di convivenza e di benessere perché ogni luogo è diverso. Senza contare che fra cani liberi “confidenti” e cani liberi ferali le differenze sono molte e importanti. Tanto da dover operare molti e diversi distinguo, con situazioni tali da creare conflitti insanabili fra cani e uomini. In un rapporto di coesistenza innaturale, al quale abbiamo condannato il cane, che non è più lupo e non è considerabile un selvatico.
Cani liberi o randagi di quartiere: questa non è la soluzione ma una transizione che deve far crescere un mutamento culturale
Il contrasto al fenomeno del randagismo, costoso e irrisolto da decenni, deve passare da un progetto di largo respiro. Possibile soltanto se ci sarà una crescita culturale capace di creare le condizioni di un diverso sentire. Una visione del nostro rapporto con i cani e con gli altri animali in generale, che passi attraverso il riconoscimento dei loro diritti. Identificandoli come individui, comprendendo le loro necessità e riconoscendoli come portatori di diritti reali. Se questo passaggio culturale non sarà concretizzato, diventando realtà, continueremo a avere canili strapieni di potenziali egastolani con strade e campagne affollate di randagi.
Il problema sicuramente è complesso, difficile da far comprendere e da far assimilare. Per troppi interessi, alcuni davvero inconfessabili come succede negli appalti dei canili e nella gestione “in vita” degli sventurati ospiti. Ma talvolta anche a causa di una visione pietistica del soccorso a ogni costo, che si traduce in quella patologia definita sindrome di Noè1 che è poi causa di tante sofferenze. Un amore che diventa una forma di violenza perpetrata a danno degli animali, non solo cani.
Certo è affascinante vedere il comportamento dei cani liberi, la loro socialità e le interazioni, osservando vite che in qualche modo hanno regole non così dissimili dalla comunità umana. Ma è impossibile pensare che questa “vita di gruppo” possa avvenire all’interno di contesti fortemente antropizzati come le nostre città, senza scatenare conflitti insanabili. Un dato difficilmente contestabile, che dovrebbe bastare per accettare il fatto che la presenza di randagi socializzati in contesti urbani e periurbani debba essere una via temporanea, non il punto d’approdo. Per limitare gli ingressi nei canili, per stimolare le persone alla coesistenza ma nell’ambito di un processo che generi un cambiamento profondo del nostro rapporto con gli animali domestici.
Per combattere davvero il randagismo ci vuole il coraggio di andare in direzione ostinata e contraria
I cani non sono animali selvatici, sono una sottospecie dei lupi, dai quali prendono il loro nome scientifico, poi declinato nelle tante razze create dall’opera, spesso distorta, dell’uomo. Canis lupus familiaris è il cane e in questa identificazione convive tutta la questione, il fascino dell’avvicinamento dei lupi all’uomo in un percorso che ci accompagna da diverse migliaia di anni. Ma anche a quel “patto tradito fra uomo e cane” da cui prende spunto il titolo di questo blog, che ha portato prima a una convivenza, poi alla pessima gestione e infine all’intolleranza.
Per questo occorre promuovere un periodo di transizione, durante il quale pensare di rinchiudere nei canili il minor numero di cani possibile, cercando di convivere con quelli che possono vivere liberi. In contesti controllati, senza ulteriori riproduzioni, con una gestione che deve avere come obiettivo la progressiva scomparsa del cane randagio. Con buona pace della visione romantica dei cani liberi, che certamente ha buon gioco nell’affascinare chi ascolta, senza poter però mettere sul tavolo soluzioni convincenti e soprattutto attuabili di coesistenza.
In parallelo bisogna attivare, con serietà, campagne di informazione, strumenti di contrasto al commercio e alla riproduzione incontrollata dei cani, che portino le persone a una maggior consapevolezza dei loro doveri. Per chiudere, una volta per tutte, i rubinetti delle mille sorgenti che alimentano il randagismo, a partire dal vagantismo canino, alle cucciolate casalinghe e alle adozioni d’impulso. Un futuro che potrà diventare reale solo lavorando tutti insieme per creare i presupposti culturali per sostenerlo. Svuotando così, una volta per tutte, i canili
la persona nutre un sincero attaccamento emotivo nei confronti dei suoi animali ed è convinta di “salvarli” (da qui il nome “Sindrome di Noè” – Emanuela Prato Previde – Silvia Colombo – Università degli Studi di Milano nel libro “Una strana Arca di Noè”.↩︎
Orsi e lupi sono pericolosi come ci raccontano o la paura è amplificata da una narrazione sensazionalistica? A giudicare dai dati, non solo nazionali, il pericolo di un esito letale a seguito di un incontro con un predatore è decisamente irrisorio. In tutta Europa, secondo uno studio scientifico al quale ha partecipato anche il MUSE di Trento, gli attacchi di orsi dal 2000 al 2015 sono stati 291. Dei quali la maggior parte risultaavvenuta in Romania, dove l’orso è sottoposto a una grande pressione venatoria. Questi attacchi comprendono tutti i “contatti ravvicinati” avuti con l’uomo e la maggioranza è stata senza esito letale.
In Italia, in più di 150 anni, l’unico attacco letale di un orso è accaduto in Trentino nell’aprile del 2023, quando l’orsa Jj4 con i suoi cuccioli ha incontrato, tragicamente, il runner Andrea Papi. Le circostanze non sono, e non potrebbe essere diversamente, del tutto chiarite ma l’unica certezza è che l’orsa fosse insieme ai suoi piccoli. Un fatto che secondo lo studio citato in precedenza è la causa della maggior parte degli attacchi, effettivi o falsi che siano. Su 291 attacchi registrati nel mondo in quindici anni ben 137 sono dovuti alla presenza dei cuccioli e 48 da quella di cani.
Vale la pena di sottolineare che gli attacchi predatori di orsi bruni nei confronti degli esseri umani, nei quindici anni presi in esame dalla ricerca, sono stati soltanto 15 in tutto il mondo, nessuno in Italia. I lupi invece non identificano gli uomini come prede e comunque non ci sono stati attacchi letali in Europa negli ultimi 150 anni. Pochissimi sono anche gli episodi di morsicatura. Peraltro i pochi episodi accasduti in Italia sono stati con lupi resi confidenti, perlopiù a seguito della pessima abitudine di dare cibo agli animali selvatici.
Orsi e lupi sono pericolosi, ma solo talvolta quando predano gli animali al pascolo e quasi sempre per responsabilità umana
Se esiste un posto dove vive probabilmente la più grande concentrazione di orsi questo è il Parco di Yellowstone negli Stati Uniti. Dove gli orsi sono sempre stati guardati anche in modo simpatico, come dimostrano i cartoni animati dell’orso Yoghi. Quando l’unico a essere in pericolo era il cestino del pic-nic. Il parco continua a ritenere che il pericolo di un evento avverso a causa di un orso sia decisamente più basso di tante altre cause di incidente. Grazie anche a un’informazione preventiva dei visitatori ben strutturata e completa. L’esatto contrario di quanto accade in Trentino.
Da quando Yellowstone è stato fondato nel 1872, otto persone sono state uccise dagli orsi nel parco. Più persone nel parco sono morte per annegamento (125 incidenti) e ustioni (dopo essere cadute nelle sorgenti termali, 23 incidenti) di quante ne siano state uccise dagli orsi. Per dirla in prospettiva, la probabilità di essere ucciso da un orso nel parco (8 incidenti) è solo leggermente superiore alla probabilità di essere ucciso da un albero che cade (7 incidenti), da una valanga (6 incidenti) o di essere colpito e ucciso da un fulmine (5 incidenti).
Complessivamente è di tutta evidenza che i grandi carnivori in Europa non costituiscano un pericolo concreto per l’incolumità delle persone. Sicuramente fanno più vittime innocenti i cacciatori durante lo svolgimento della loro attività ludica. Senza che per questo nessuno ancora li identifichi come un reale minaccia per la sicurezza delle persone. L’avversità contro i grandi carnivori e i predatori in generale cresce, forse anche a causa di un governo decisamente filo venatorio e legato alla cordata di allevatori e agricoltori.
I media soffiano sul fuoco perché niente come la paura produce click, mentre il ragionamento allontana i lettori
Ogni volta che accade una predazione su animali al pascolo gli organi di informazione si lanciano in titoli a effetto, per spaventare! In questo gioco al massacro finisce addirittura “La Gazzetta dello Sport” che titola così: “Auronzo di Cadore, lupo sbrana un cervo nel giardino di un hotel”. Dove nulla è casuale, non il termine sbranare, volutamente truculento, né il luogo che contribuisce a far percepire il predatore come sfacciato e pericoloso. Aggiungendo una nota surreale nel corpo dell’articolo “Finora, nonostante la loro presenza sulle Dolomiti, non sono mai stati registrati attacchi all’uomo da parte dei lupi. I più colpiti sono gli allevatori che, invece, vedono i propri animali spesso sbranati dai lupi della zona“
Poco importa che un predatore sbfrani perché non può usare un coltello e che in questo non si possa vedere un segno di crudeltà. L’importante è creare paura, sensazionalismo, anche su un giornale che dovrebbe occuparsi d’altro. Ma che non resiste al fascino dei click, che piacciono tanto agli investitori pubblicitari. Il valore di un articolo non sono più i contenuti, ma quanti click ottiene grazie a titoli ad effetto. Così anche un giornale sportivo si ritrova a parlare di lupi. Un po’ come se un giornale sulla caccia pubblicasse un articolo a favore del referendum per abolirla.
Del resto si sa che il lettore medio spesso si ferma ai titoli, senza nemmeno leggere i sottotitoli. Oramai commentare senza leggere è una regola sui social. In questo modo poche persone si rendono conto di quanto siano manipolabili, di quanto sia facile far credere verità una bugia senza né capo, né coda. Così quando un ministro dichiara che i lupi sono troppi il gregge finisce per credere che anche il termine “troppi” possa avere dignità di valore scientifico. Indipendentemente dalla conoscenza sul tema di chi lo afferma. Grazie a questo comportamento i veri predatori dilaniano il diritto a avere informazione veritiera e di qualità, diventando l’oracolo. Chi cerca di ragionare, invece, è considerato spesso un teppistello del web.
Stiamo mandando in fumo la biodiversità, fingendo di voler cambiare modello di sviluppo senza farlo realmente. Le azioni messe in campo da quella parte del mondo che inquina maggiormente e potrebbe permetterselo sono blande e inefficaci. Chi parla dell’inizio di una prevedibile Apocalisse viene tacciato di catastrofismo, senza però essere smentito dai fatti. Da una parte la lobby finanziaria non è disposta a allentare la morsa sul parco consumatori, facendo credere che tutto sia risolvibile senza troppa fretta, dall’altro la politica non vuole subire danni alle prime elezioni.
In mezzo al guado restano i cittadini, che hanno la grande colpa di non volersi informare, di volersi rifugiare nei messaggi rassicuranti. Confezionati con cura dai demagoghi del tutto va bene. Una fonte pericolosa alla quale dissetare la voglia di normalità, che non coincide con la realtà possibile. Nel frattempo gli eventi eccezionali raggungono una frequenza che dovrebbe farli qualificare come ordinari, anche se certo non normali. Dove il senso della normalità era che nel paleartico occidentale non potessero capitare fenomeni atmosferici tipici delle zone tropicali.
Mentre il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto ha recentemente sintetizzato il suo pensiero in un tweet. Questo:
Lasciamo ai tecnici il dibattito sull’emergenza climatica.
La responsabilità del Governo è di mettere in pratica azioni che riducano al minimo gli effetti sulle nostre comunità delle siccità come delle forti piogge. pic.twitter.com/4QIv7xPjk6
Un pensiero che credo faccia inorridire chiunque abbia presente i compiti di chi l’ambiente, e quindi la vita dell’uomo, lo dovrebbe difendere a ogni costo. L’obiettivo dovrebbe essere la neutralità climatica, non quella neutralità incompatibile con questo terribile presente. Eppure questa politica tende più a salvaguardare l’economia che a difendere l’ambiente, dimenticando di quantificare i danni, anche economici, che queste scelte cercano di nascondere sotto il tappeto.
Cambiare rotta è possibile: occorre smettere di seguire i pifferai magici o, come i topi della favola, siamo destinati a una brutta fine
La politica deve smettere di anteporre i suoi interessi al bene collettivo, il governo ha il dovere di prendere provvedimenti, anche impopolari ma nella giusta direzione. Se in passato avessimo speso meglio le risorse destinate all’educazione e alla libera informazione ora avremmo un paese migliore, più consapevole. I governi passano, ma la popolazione rimane e uno statista deve cercare di renderla ogni giorno migliore. Dove il concetto di migliorarsi coincide solo con l’opposto dell’essere manipolabili dal governo del momento, ma capaci di comprendere il tempo presente in cui stiamo vivendo. Per poter sperare di vedere un futuro.
La prima cosa che salta all’occhio leggendo il piano è che di fatto l’attività venatoria si sdoppia e raddoppia: una cosa resterà la caccia, con le sue regole, altro il contenimento faunistico. Quest’ultimo avrà regole diverse e non costituirà attività di caccia, quindi anche l’eventuale vittoria di un referendum non chiuderebbe questo nuovo luna park regalato ai cacciatori. Una scelta decisamente in direzione contraria rispetto a quella di cercare di lasciare spazio alla natura, di creare nuovi spazi di maggior tutela e minor pressione antropica.
Nel nostro paese il mantra più diffuso non è sulla necessità di ricreare un equilibrio nuovo, con la finalità di contribuire alla mitigazione dei danni antropici, ma bensì quello di non danneggiare l’economia. Raccontando che il nemico, la fauna, distrugge i raccolti, diminuisce le risorse e non ultimo genera costi. Motivo per cui non si deve pensare alla coesistenza ma bensì alla riduzione del numero degli animali considerati ostili: dai cinghiali ai conigli, dai mufloni alle nutrie. Lasciando aperta la porta all’abbattimento degli ibridi, con ovvio riferimento ai lupi.
L’attivita venatoria si sdoppia e raddoppia, con ogni mezzo e in ogni tempo: un Far West legalizzato e irragionevole
Si riportano di seguito, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, gli strumenti tecnicamente piu’ efficaci per la rimozione selettiva degli animali: a) reti, gabbie e trappole di cattura; b) ottiche di mira anche a imaging termico, a infrarossi o intensificatori di luce, con telemetro laser, termocamere; c) fucile con canna ad anima liscia o rigata a caricamentosingolo manuale o a ripetizione semiautomatica classificate come armi da caccia o armi sportive. Salvo quanto diversamente disposto dallenormative vigenti in materia di armi, per i fucili con canna ad anima rigata e’ consentito l’utilizzo di ogni calibro, anche con diametro del proiettile inferiore a millimetri 5,6 e con bossolo a vuoto dialtezza inferiore a millimetri 40; d) arco tradizionale (longbow, flatbow, ricurvo) di potenza noninferiore a 50 libbre a 28 pollici di allungo e arco compound dipotenza non inferiore a 45 libbre a 28 pollici di allungo e frecce con punta munita di lame; e) fucili ad aria compressa di potenza superiore ai 7,5 Joule; f) strumenti per telenarcosi (fucili, cerbottane); g) strumenti per coadiuvare l’osservazione e il riconoscimentodegli animali (binocolo, cannocchiali, ottiche a imaging termico,intensificatori di luce e visori a infrarossi dotati di telemetrolaser); h) camera di induzione per eutanasia; i) strumenti di videosorveglianza nel rispetto delle normative e disposizioni in materia di privacy e trattamento dei dati personali; j) falco (unicamente per le specie autoctone delle famiglie degli Accipitridae, Falconidae, Strigidae e Tyonidae); k) richiami acustici, sia elettronici che meccanici; l) stampi e richiami impagliati, anche di specie diverse da quella oggetto di controllo; m) richiami vivi unicamente della specie oggetto di controllo, purche’ siano detenute ed utilizzate nel rispetto di tutte le normevigenti in materia di benessere animale; n) esche alimentari/olfattive attrattive (foraggiamento attrattivo, opportunamente regolamentato).
Comma 2, punto 3 dell’allegato 1 al piano straordinario di contenimento della fauna
Se non consideriamo le armi da guerra possiamo affermare che ogni mezzo sia consentito per raggiungere l’obiettivo, senza andare troppo per il sottile. Una deregulation che consentirà di sparare dalle macchine, di notte, con il silenziatore, con armi di qualsiasi calibro, solo per dare un’idea della pericolosità del provvedimento, per animali e persone.
Il delirio di onnipotenza porta a una gestione faunistica dannosa, mettendo l’uomo al centro e gli animali ai margini
I media non hanno dato il giusto risalto a questo provvedimento, che supera ogni immaginazione, ma anche ogni possibile idea del limite invalicabile per la difesa di ambiente e biodiversità. Certo il mondo venatorio e una buona parte di quello agricolo diranno che questo piano servirà al contenimento di specie alloctone e/o invasive che minacciano i raccolti. Ma un piano di gestione faunistica che consente di abbattere animali in ogni tempo e con mezzi impensabili non può essere considerato uno strumento intelligente. Resta aperta, per fortuna, la possibilità che l’Europa ci chieda profonde modifiche per non aprire quella che appare come l’inevitabile procedura d’infrazione.
L’articolo 19-ter, apena introdotto nel corpo della legge 157/92 stabilisce che: “Le attivita’ di contenimento disposte nell’ambito del piano di cui al comma 1 (il piano di contenimento faunistico n.d.r.) non costituiscono esercizio di attivita’ venatoria e sono attuate anche nelle zone vietate alla caccia, comprese le aree protette e le aree urbane, nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto“. Che tradotto in pratica significa poter cacciare animali sempre e dovunque, senza limiti temporali o di luogo!
In tempi come questi, nei quali la lungimiranza non dovrebbe essere più considerata solo una dote ma un obbligo, chi governa ha dato corpo e vita a un mostro. Con una visione del futuro che non arriva oltre alle scadenze elettorali, dimostrando tutti i limiti di una politica obbligata a pagare i debiti elettorali piuttosto che a difendere gli interessi dei cittadini.
Questo romanzo alterna momenti intimi, che coincidono con emozioni autobiografiche vissute dall’autrice, a riflessioni sul nostro rapporto con i cani. Che vogliono sottolineare che quando parliamo di cani non dobbiamo considerarli come una categoria, ma come una comunità di individui, proprio come accade per la nostra specie. La capacità di volerli vedere per come sono, per le loro diverse abilità e per un modo di socializzare sempre soggettivo, individuale, proprio come quello degli umani, aiuta a riflettere e a mutare il nostro angolo di visione.
Come accade nei romanzi anche “L’abbandono” tesse una storia, che nel suo svolgersi ci porta a comprendere come la sofferenza del distacco, ma anche la rinascita, facciano parte delle nostre vite. Ma anche di quelle degli animali, che noi umani spesso riusciamo solo a intravedere senza davvero voler entrare nel sentire degli altri viventi. Probabilmente per la paura di riconoscerli come esseri troppo vicini a noi per poterli considerare così poco. Ma lascio il racconto ai lettori, senza anticipazioni.
“L’abbandono” di Diana Letizia tocca temi scomodi, come la “sindrome di Noè” che colpisce molti animalisti
Il nostro rapporto con gli animali non è sempre frutto di intelligente aiuto, ma spesso si basa sulla soddisfazione dei nostri bisogni, che quasi mai coincidono, quando compulsivi, con quelli degli animali. Una verità scomoda della quale parliamo in pochi, ma pur sempre una realtà che genera sofferenza e privazioni, che non sono lenite dalle buone intenzioni. Scelte che portano i cani a finire nei canili senza avere la possibilità di trovare una via di uscita, prigionieri di un labirinto in cui non solo il denaro ma anche un amore senza riflessione li ha rinchiusi.
L’ambientazione di questo libro ha le luci calde del nord Africa, i ritmi del Marocco e una localizzazione a Taghazout. Una località della costa, probabilmente sconosciuta ai più, almeno fino all’aprile del 2018, quando il Marocco, candidato per essere sede dei mondiali di calcio, decide di fare pulizia. Non solo dei paesi, in vista dell’arrivo della delegazione della FIFA che dovrà valutare la candidatura, ma anche e soprattutto dei cani. Così una località dove la convivenza era norma si trasforma in un’arena senza toreri, ma con uomini e ragazzi armati che fanno strage di randagi.
Il racconto rende palpabile la gravità della strage, con garbo e attenzione, per far comprendere senza sconvolgere. Per consentire anche ai lettori più sensibili di capire, di entrare in una delle tante, nefaste, pagine della storia comune di uomini e cani. Rotto il patto di convivenza scatta la volontà di raccogliere dalle strade più cani possibili, ma questa scelta porta ad amassarli in modo insensato, così da avere, forse, salva la vita ma non dignità e benessere. L’esemplificazione tangibile della “sindrome di Noè”, ben conosciuta da chi si occupa di animal hoarding.
Bontà e malvagità spesso partono da punti diversi dell’orizzonte umano ma possono fondersi nelle conseguenze delle azioni
Se qualcuno pensa che il titolo del libro sia il preludio di un racconto basato sull’abbandono degli animali dovrà ricredersi. In fondo in questo romanzo siamo tutti accomunati e raccolti nelle sofferenze causate dall’essere stati, almeno una volta nella vita, abbandonati, feriti. Lacerazioni che talvolta spezzano l’anima o piccole bruciature che continueranno a farsi sentire anche quando sembrano guarite. Un viaggio, breve ma intenso, che attraversa le nostre vite di esseri umani ma non solo quelle.
Diana Letizia è una giornalista con una lunga storia di redazioni alle spalle e ora è il direttore di Kodami, periodico digitale che tratta temi legati agli animali e all’ambiente, con ottime performance in tempi in cui molti parlano ma pochi leggono. Il romanzo, per scelta dell’autore e della casa editrice, destina i proventi alle associazioni di tutela degli animali che operano in modo intelligente e consapevole sul territorio.
Round Robin Editore – brossura – 291 pagine – 16 Euro
Sterminio di gatti e volpi con il veleno, grazie a una macchina governata dall’intelligenza artificiale, non è una fake news ma la nuova strategia australiana. Volpi e gatti sono ritenuti dei pericoli per la biodiversità e da tempo chi si occupa di conservazione punta il dito contro i gatti, responsabili di uccidere miliardi di animali selvatici. Il fatto che i gatti, in particolare i randagi, siano responsabili di un prelievo consistente sulla piccoli uccelli e mammiferi è un dato difficile da confutare. Certo si potrebbero costituire parallelismi fra moltissimi altri eventi dannosi per la fauna, ma resta il punto che i gatti sono un predatore introdotto dall’uomo.
Secondo gli enti governativi queste due specie sono responsabili, in concorso con altre, dell’uccisione di due miliardi di animali australiani ogni anno, mentre i gatti domestici si attesterebbero sull’uccisione di oltre 390 milioni di selvatici. Il punto non è tanto, qui,di contestare i numeri, ma quello di valutare i metodi impiegati, per i quali il governo ha stanziato 7,6 milioni di dollari in cinque anni. Con lo scopo dichiarato di contrastare l’espansione di volpi e gatti a qualsiasi costo. Con quali metodi? Con una macchina governata dall’AI.
Sterminio di gatti e volpi con il veleno, in modo crudelmente selettivo grazie all’AI ma con una sorpresa
Felixer è il nome di questa macchina, che grazie all’intelligenza artificiale è in grado di riconoscere gatti e volpi con un alto tasso di precisione. Riuscendo anche a emettere richiami, denominati “esche sonore”, capaci di indurre queste specie a avvicinarsi al macchinario. Una volta che li avrà identificati Felixer sparerà su gatti e volpi un gel tossico, che una volta leccato dagli animali li condurrà a morte. Una versione più sofisticata dei topicidi, non è dato di sapere quanto indolore considerando che si tratta di un tossico.
Gli stessi produttori ammettono che nonostante il dispositivo sia in uso da diversi anni e sia governato dall’AI ci possono essere dei tassi di errore. Vale a dire un mancato corretto riconoscimento della specie target con un tasso di errore che non dovrebbe essere superiore allo 0,5%. Questo è quanto rivela la scheda tecnica dell’apparecchio e gli avvertimenti di sicurezza sull’uso.
A questo punto il lettore starà pensando che questa macchina sia stata pensata da una delle tante multinazionali che commerciano veleni e varia attrezzatura. Proprio questa è invece la sorpresa perché chi ha inventato e commercializza questa macchina è una charity che si chiama Thylation. Una ONG che ha come scopo quello di occuparsi di conservazione della biodiversità, vantando una serie di sinergie con altre realtà impegnate in questo campo.
Selettiva negli obiettivi Felixer, pur con dichiarate possibilità di errore, ha effetti collaterali
Insomma ancora una volta l’idea di difesa della natura si intreccia con la volontà di gestirla, secondo tecniche e sistemi sempre meno naturali e sempre più problematici. Cercando di intervenire sulle conseguenze e poche volte sulla prevenzione, dimenticando che per ottenere un reale risultato bisognerebbe avere la volontà di ridurre l’intervento antropico. Facendo prevenzione e non soltanto una costante opera di rimozione di specie indesiderate dal territorio.
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