25 anni dalla nascita della legge 281, norma che ha costituito un cambio epocale nella gestione del randagismo stabilendo di fermare le soppressioni degli animali randagi, dopo solo 5 giorni dalla cattura.
Ma 25 anni dalla nascita della legge 281 hanno anche dimostrato che tantissime promesse non sono state rispettate e che Stato e Regioni non hanno fatto il loro dovere, non attuando la normativa che doveva cambiare metodi e strategie nella lotta al randagismo.
Da un punto di vista pratico l’avvento della 281/91 ha rappresentato un radicale cambiamento nel destino degli animali randagi, non più soppressi dopo soli 5 giorni di canile. Una strage che dal 1954, anno di adozione del Testo Unico delle leggi di Polizia Veterinaria, ha portato all’inutile uccisione di qualche milione di animali randagi, spesso in modo barbaro, senza spostare di una virgola in quello che era ed è rimasto un problema combattuto male e con ritardo costante: quello del randagismo.
Si parla da tempo di una revisione del testo della 281/91 ma il rischio è che i fondi ridotti destinati a questo settore portino a una revisione al ribasso degli obblighi della pubblica amministrazione. In questo modo si passerebbe da un’incompiuta causata da inadempienze non accettabili a una limitazione dei compiti per favorire risparmi strutturali. Insomma il classico rischio di cadere dalla padella nella brace, come ha recentemente dimostrato il tentativo operato dalla Regione Lombardia di ridurre obblighi e competenze di ATS e Comuni, e della stessa Regione, con la scusa di un adeguamento normativo.
Così questo stato di cose resta in perenne equilibrio, portando con se complessivamente più ombre che luci che diventano davvero lumini più si scende verso il meridione del nostro paese dove è più che corretto affermare che la lotta al randagismo, fatta di provvedimenti coordinati e di programmi a livello regionale, non annunciati ma attuati, non sia mai partita. Troppo spesso gli animali in genere e i randagi nel caso particolare hanno arricchito i politici (di voti) e i malavitosi (di soldi), ma molto raramente hanno potuto toccare la contropartita dei vantaggi procurati.
Per molte amministrazioni i randagi rappresentano un costo, il mancato rispetto dei dettati normativi un’abitudine, il non rispetto delle norme da parte dei cittadini una conseguenza tollerata e spesso agevolata. Per i molti gestori di canili, dove centinaia di migliaia di animali aspettano di poter avere una casa, il randagio è invece diventato una miniera d’oro: soldi sicuri, pochi controlli, amministrazioni pubbliche distratte sono l’alchimia per far diventare oro i randagi, che ogni anno costano più di un centinaio di milioni alla collettività. Soldi che correttamente utilizzati per contrastare il fenomeno, nel tempo, avrebbero potuto fornire grandi risultati, mentre vengono impiegati per garantire uno status quo a quanti sul randagismo speculano.
Ci sono canili che hanno un numero di animali adottati ridicolo, grazie anche alla presenza nelle strutture di associazioni false o compiacenti che si prestano a non incentivare l’adozione dei randagi perché in fondo nessun albergatore vorrebbe cacciare gli ospiti paganti.
Così nel tempo la 28/91 ha perso il suo smalto e verrà principalmente ricordata per l’unico suo effettivo merito: aver fermato le soppressioni dei randagi. Senza dimenticare però che grazie a questo salto in avanti nel pubblico e nel privato sentire, nella crescita dei diritti degli animali, si è passato da uccisioni giornaliere a ergastoli per tantissimi ospiti, senza realmente essere in grado di trovare una soluzione.
Senza dimenticare che a distanza di un quarto di secolo ci ritroviamo ancora con anagrafi canine solo regionali, realizzate gettando soldi pubblici che avrebbero potuto essere meglio impiegati: una volta realizzato un software ben pensato sarebbe stato infatti sufficiente adottarlo in tutte le Regioni per dar vita a un’anagrafe canina nazionale. Ma invece ancora oggi le Regioni usano ognuna un programma, forse nel nome di quelle autonomie che moltiplicano i costi, e continua però a mancare un’anagrafe canina nazionale. Così la ricerca di un cane, partendo dal microchip, diventa decisamente macchinosa se è registrato in una regione differente da quella in cui viene ritrovato, specie di notte e nei periodi festivi. Per non parlare del numero di cani inseriti nelle anagrafi canine che verosimilmente potrebbero non raggiungere il 50% della popolazione canina nazionale, a causa di omesse identificazioni nei canili, specie al sud, e per colpa dei tantissimi proprietari che in assenza di controlli, comprendendo anche quelli omessi negli ambulatori veterinari, non registrano colpevolmente il proprio cane.
Questa legge non ha poi nemmeno fatto da argine ai fiumi impetuosi che alimentano il randagismo, quali il possesso irresponsabile degli animali, troppo spesso vaganti e non sterilizzati, un commercio che muove fatturati enormi e il mondo degli acquisti o delle adozioni fatte d’impulso, fenomeno ora amplificato anche dalla rete. Occorre prenderne atto e cambiare metodi, in un paese che ha fin troppe leggi che non riesce né a applicare né a far rispettare, in tantissimi settori e certamente anche molto diversi da quelli che riguardano animali e randagismo.
Insomma alla fine un compleanno importante per una norma nata per rivoluzionare i diritti degli animali, senza però riuscirci realmente se non con l’astratta annunciazione di principi importanti, rimasti però concetti astratti.
Speriamo che la prossima normativa nazionale, che costituisce la cornice delle leggi regionali, possa vedere la luce con meno compromessi e molte più attività davvero concrete e efficaci.
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Articolo aggiornato il 16 agosto 2016