Il randagismo canino è una piaga endemica anche dell’Italia, con le amministrazioni pubbliche che non si muovono, una programmazione poliennale assente, fenomeni criminali che si nutrono del business dei randagi, rifugi e canili sparsi sul territorio della penisola, in molti casi fuori controllo e fuori dall’orbita dei controlli, che seppur dovuti sono pochi e troppo spesso inefficaci: questo il quadro desolante che emerge del nostro paese, leggendo le inchieste su questo tema.
La crisi economica e le difficoltà dei bilanci pubblici sono diventati il mantra ripetuto fino allo sfinimento per giustificare l’inazione, la scarsità delle verifiche, il comportamento latitante di troppe regioni e sindaci degli 8.047 Comuni italiani, quelli che dovrebbero rappresentare proprio il baluardo, la prima linea, nella lotta a questo fenomeno inarrestabile rappresentato dal randagismo canino. Sarebbe più giusto, invece, parlare di fondi mal impiegati, di soldi versati a pioggia su canili da 500/1.000 posti dove quasi sempre il benessere animale è una chimera, di interventi mirati più alla perpetuazione economica del fenomeno che non alla reale volontà di cancellarlo. Sarà un caso che la sofferenza attraversi sempre le stesse porte, colpisca con costanza le categorie che non si possono difendere come i migranti, i poveri, gli emarginati, gli animali oppure dietro questo fenomeno si cela un calcolo? Sembrerebbe che in Italia ci sia bisogno di un’inchiesta giudiziaria per ogni tipologia di attività messa in campo dalla pubblica amministrazione, ma con i soldi dei cittadini, per cercare di riuscire ad arginare e non certo purtroppo a sconfiggere il fenomeno corruttivo, oramai intimamente connesso sia con lo stato sociale che con il substrato sociale della nostra collettività.
Prima di scrivere questo pezzo ho provato a riguardare i numeri del randagismo canino sul sito del Ministero della Salute, trovando puntualmente i dati riferiti al 2011 sul randagismo mentre quelli riferiti ai finanziamenti di opere (leggi canili) sono fermi al 2007 e la pagina chiude con questa sconcertante frase: “L’elenco comprende i progetti che si riferiscono ai contributi concessi e definiti entro il 31 dicembre 2007. Pertanto non figurano i progetti relativi alle istanze accolte ma ancora in fase di elaborazione e definizione.” Il problema è che corre l’anno 2015 e che da quel 31 dicembre 2007 sono passati circa 2.748 giorni.
Per questo alla fine i privati si attivano da soli dando vita ad associazioni, a gruppi spontanei o soltanto a una rete di persone che sposta senza sosta, ma non senza problemi in molte occasioni, i cani dal Sud al Nord del paese, dove le condizioni del randagismo sono molto meno emergenziali, anche se i canili non sono certo vuoti. La rete è diventata il luogo di scambio di informazioni, ricerca di contatti, di adozioni, di fondi, di stalli e staffette. In questo mare magno, come in tutti i mari della società, vivono persone animate da ottime intenzioni e capaci di avere progettualità e rispetto delle norme, persone animate da ottime intenzioni ma con un’approssimazione spesso fonte di danno per gli animali che si proporrebbero di salvare e poi ci sono loro: i “parassiti” del randagismo, quelli che hanno costruito un’attività fintamente benefica trovando così un modo per guadagnare denaro, c’è chi dice molto denaro, spesso in nero. Difficile stabilire le percentuali delle tre categorie, la sensazione è che quella dei “parassiti” sia agguerrita, ma notevolmente inferiore per numeri rispetto alle prime due. Questa attività spontanea per molti cani rappresenta la differenza fra vivere e morire, fra avere una chance oppure essere costretti a trascorrere tutta la vita in un canile, realtà che spesso sarebbe più giusto descrivere come una vita passata a “marcire” in un canile. Ancora una volta il parallelo con quanto accade ed è accaduto con i migranti, con gli emarginati e con gli anziani soli è fin troppo evidente, drammatico.
Questi viaggi della speranza non risolvono sicuramente il problema del randagismo, possono solo far cambiare la vita a tanti singoli, che pur diventando moltitudine non contribuiranno in alcun modo alla contrazione del fenomeno, mentre contribuiranno a diventare un alibi per le pubbliche amministrazioni, che sfrutteranno il comportamento samaritano dei volontari per lavarsi le mani del problema. Questo è un effetto collaterale che nulla toglie al valore della salvezza di ogni singolo cane, che trova un mondo migliore ad accoglierlo. Questo può invece diventare l’effetto collaterale perverso quando il trasferimento di animali è fatto senza criterio oppure è gestito dai “parassiti” del randagismo: non da un futuro certo all’animale, crea sofferenza e talvolta morte, facili guadagni a chi lo gestisce e inutili alibi alle amministrazioni regionali e comunali, che dovrebbero imperativamente occuparsi del randagismo. Per questo già in un precedente articolo pubblicato sulle staffette che trasportano i cani dal Sud al Nord avevo messo in guardia le persone dall’adottare un cane proveniente dal centro-sud senza compiere le opportune verifiche: non tutto è come sembra e talvolta, purtroppo, è proprio il contrario. Del resto spesso sotto la bandiera di attività benefiche si travestono da personaggi integerrimi veri e propri orchi e per fare ancora una volta un parallelismo fra uomini e animali pensiamo ai bambini sessualmente abusati da chi li custodiva o agli anziani picchiati in alcune case di riposo, solo per fare due esempi.
Il vero problema è la perpetuazione del fenomeno del randagismo canino, che deve essere adeguatamente fronteggiato, obbligando tutte le componenti pubbliche coinvolte a fare quanto le leggi, ma anche il buon senso, prevederebbero. In questo i cittadini devono imparare a difendere i loro diritti e quelli degli animali, le associazioni a stringere in una morsa l’apparato pubblico perché intervenga in modo efficace e chi decide di fare una buona azione, adottando un cane, nel porre molta attenzione per compiere un gesto davvero responsabile; per farlo responsabilmente occorre accertarsi bene su chi lo propone e privilegiare l’affido che avviene tramite canili o associazioni che collaborano con realtà del sud Italia. Adottare un cane per strada, ad uno dei tanti svincoli autostradali, comporta un elevato rischio di fuga che potrebbe tradursi in un incidente grave con un concreto pericolo anche per le persone, ma deve essere visto anche come una grande approssimazione nello svolgere questo tipo di attività, sicuramente fuori da regole e buon senso.
Bellissimo articolo, ma ancora troppo poco informato su quanto realmente sono e fanno quelle associazioni di cui parla ma che dimostra di conoscere ancora troppo poco
La mia non vuole essere una critica a chi lavora bene, anzi, però bisogna anche ammettere che nel grandissimo movimento di cani e persone ci sono, purtroppo, anche soggetti che creano grandi problemi e fanno un grande danno verso chi lavora seriamente. Questo è lo spirito del mio pezzo, ma il vero problema evidenziato e l’immobilismo delle istituzioni. Chi sa di lavorare bene dovrebbe essere solo contento che se ne parli.