Tutela degli animali e giardini zoologici: le contraddizioni di istituzioni e associazioni che scelgono di svolgere attività nei luoghi in cui gli animali sono sfruttati. Una situazione eticamente paradossale, che crea imbarazzo nel fronte di quanti a vario titolo si occupano di tutelare i diritti degli animali. Le notizie di stampa riportano con grande risalto un’iniziativa promossa da Zoomarine -il giardino zoologico con annesso delfinario e molte altre aree tematiche- che promuove la campagna “Se Cupido ci mette lo zampino” con collaborazioni insospettabili. Non soltanto di un’associazione che dichiara di occuparsi di vigilare sul benessere animale ma anche con la partecipazione dell’Assessorato Ambiente di Roma Capitale.
Scopo dell’iniziativa sarebbe quello di trovare famiglia e casa per i cani e gatti ospiti del Rifugio Muratella e dell’Oasi Felina Porta Portese. Sotto l’occhio vigile delle Guardie Zoofile di Agriambiente Lazio che avranno il compito di istruire le famiglie sul rispetto delle necessità degli animali domestici. Questa iniziativa viene portata avanti in una struttura che usa gli animali per fare spettacolo, attività del tutto legale ma che indubbiamente costringe gli animali in cattività per scopi commerciali. In tutto il mondo occidentale si chiede la chiusura di circhi, delfinari e anche di questo tipo di parchi tematici che, fra le altre cose, consentono interazioni con lemuri, pinguini, pappagalli e petauri.
In questo periodo le strutture di cattività per gli animali sono oggetto di critiche, da quelle più aspre nei confronti dei circhi con animali a quelle che riguardano delfinari e luoghi in cui si fa spettacolo. Lo sfruttamento degli animali per divertimento non è ritenuto eticamente accettabile, anche se i parchi tematici continuano, purtroppo, a essere molto attrattivi per il pubblico. Grazie al fatto che l’attenzione nei confronti degli animali e dei loro diritti ha diverse intensità, che variano non soltanto a seconda della specie ma anche del contesto in cui gli animali vengono tenuti.
Tutela animali e giardini zoologici sono realtà incompatibili, specie quando si fa spettacolo
I gestori di giardini zoologici come Zoomarine o Zoom sono stati molto attenti alle coreografie e alla narrazione delle loro attività. Raccontando di bioparchi immersivi o di giardini zoologici utili se non indispensabili a difendere ambiente e biodiversità. Ricreando ambientazioni che impediscono al visitatore poco informato di comprendere le reali condizioni degli animali, prigionieri in piccolissimi territori. Nella realtà i messaggi educativi e l’attenzione verso la biodiversità annegano in un contesto che diventa una macchina per fare soldi. Legittima, legale, criticabile sempre ma non denunciabile, non arrestabile sino a quando la normativa non cambierà radicalmente.
Nell’attesa di norme nuove bisogna cercare di aumentare la divulgazione su quanto queste strutture siano inutili, per far conoscere il comportamento degli animali o per contribuire alla loro conservazione. Questi parchi tematici rappresentano un vantaggio soltanto per le società che li possiedono, con ricadute davvero minime se non inesistenti sulla conservazione. Servono purtroppo, questo si, a riempire gli enormi buchi lasciati dallo Stato per quanto concerne il soccorso di determinate specie e la custodia degli animali in sequestro.
La difficoltà di collocare anche temporaneamente gli animali selvatici e esotici sequestrati rende spesso questi parchi una componente necessaria, ma soltanto a causa delle decennali carenze dell’ente pubblico. Le strutture per il ricovero e la cura degli animali pericolosi, esotici e selvatici dovrebbero essere attività separate da quella di società che utilizzano gli animali per intrattenimento. Per non consentire alibi alla cattività e per non diventare un traino, più o meno consapevole, di realtà quasi esclusivamente commerciali. Aziende capaci di utilizzare al meglio il marketing, veicolando azioni di greenwashing, che generano nei visitatori l’idea di contribuire ad aiutare il pianeta.
Associazioni e amministrazioni pubbliche devono mantenere comportamenti in linea con il loro ruolo
Se stupisce vedere il Comune di Roma coinvolto in attività che in qualche modo regalano visibilità a Zoomarine, altrettanto stupisce quando le associazioni utilizzano queste situazioni per promuoversi. Dovrebbe esistere una linea etica di separazione fra mondi che possono talvolta interagire per necessità ma che non devono sovrapporsi. Un esempio di questa confusione di ruoli sta nelle situazioni alle quali capita di assistere con maggior frequenza: le raccolta di cibo o di fondi che alcune associazioni fanno in negozi dove vengono venduti animali.
Se è vero che il pubblico che li frequenta si identifica quasi sempre con quanti credono di essere sensibili ai diritti degli animali è altrettanto vero che la presenza delle associazioni nei negozi diventa una giustificazione al commercio degli animali vivi.
Il commercio degli animali nasconde grandi aree grigie e poco indagate di maltrattamento ed è un fenomeno contro il quale viene fatta poca educazione. Proprio a causa di quella zona intermedia che collega commercio con gli amanti degli animali e con chi li difende. Una zona grigia che bisogna cominciare a infrangere, raccontando in modo molto chiaro che avere in casa animali selvatici non significa amarli e che non può esistere amore quando non si rispettano esigenze e caratteristiche etologiche. Se non cerchiamo di far vedere davvero questi prigionieri per quello che sono, vittime del nostro modo distorto di considerarli. le cose non cambieranno mai.
Foto tratta dal sito del Parco della Majella in occasione della sua traslocazione
La morte dell’orso Juan Carrito non deve essere inutile: l’orso più famoso del mondo a causa delle sue scorribande ci lascia innumerevoli spunti su cui riflettere. Riflessioni che devono andare oltre all’impatto emotivo perché, per chi ha seguito la sua storia, è stato come se fosse venuto a mancare qualcuno che si conosceva bene. In fondo un esempio di determinazione nel perseguimento degli obiettivi, seppur indotti da comportamenti umani sbagliati.
Non amo umanizzare gli animali, trovo che sia un po’ come sottrar loro qualcosa che è nell’essenza di ogni essere vivente. Il rispetto e l’affetto non sono dovuti solo agli uomini, ma soprattutto il rispetto è un sentimento che bisogna provare, come compassione ed empatia, verso tutti gli abitanti di questo fantastico e bistrattato pianeta.
La morte dell’orso Juan Carrito è stata una sorta di appuntamento a Samarcanda, voluto dagli uomini però
Amarena, già abituata a entrare nei paesi per cercare piante da frutto, in particolare proprio le ciliegie, ha iniziato a vivere sempre più vicino ai paesi. Per evitare ai suoi cuccioli incontri mortali, non immaginando quanto gli uomini sappiano, spesso, essere molto più pericolosi degli orsi maschi. Così nell’estate del 2020 Amarena è stata assediata ogni giorno da centinaia di turisti. Che volevano vederla, fare un video o una foto da postare sui social. Un assedio incessante che nemmeno i Guardia Parco e i Carabinieri Forestali sono riusciti a impedire.
Più Amarena e i suoi cuccioli venivano pressati, inseguiti e perseguitati più era facile che questa vicinanza potesse diventare fonte di problemi. Così il più intraprendente dei suoi cuccioli, che sono come quelli di uomo uno diverso dall’altro per carattere e temperamento, ha cominciato a imparare che non aveva motivo per aver paura delle persone. Una pessima visione del mondo, questa, per un animale selvatico, che per vivere bene deve avere paura di noi e non vederci come creature diverse ma socievoli. Una condizione, quella di provare paura nei confronti degli uomini che spesso rappresenta la sottile frontiera fra vita e morte. Oppure fra vita libera e una destinata a essere vissuta da prigioniero, come successo all’orso trentino M49.
Così, crescendo, Juan Carrito, che deve il suo nome proprio all’omonimo paese del Parco, ha cominciato a visitare fattorie e pollai, senza disdegnare apiari e altri insediamenti umani. Per poi iniziare a frequentare il centro di Roccaraso, arrivando perfino a entrare in una pasticceria del centro. Per queste e altre incursioni finì per essere catturato e portato in montagna, nella speranza che potesse restarci. Nulla da fare, dopo pochi giorni o settimane Carrito tornava a Roccaraso. Questo anche perché qualcuno lasciava cibo per attirarlo e il Comune non aveva messo in sicurezza i bidoni dei rifiuti.
La morte di Juan Carrito dovrebbe insegnarci ad avere più attenzioni verso il capitale naturale
Il Parco, anzi i parchi visto che Carrito faceva il pendolare fra il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, quello del Gran Sasso e dei Monti della Laga e l’area protetta della Majella, hanno fatto sempre il possibile per proteggerlo. Qualcuno potrà anche dire che non è stato fatto abbastanza, ma la realtà è che quando il danno è fatto non sempre è possibile ripararlo. Una volta diventato confidente Juan Carrito aveva, in fondo, solo due possibilità: morire da orso libero a causa di un incidente o finire la sua vita da orso prigioniero, in cattività, come per fortuna non è stato.
In Italia manca l’educazione sul modo di rapportarsi con le varie componenti naturali, che bisogna imparare a conoscere e a rispettare. Nessun animale selvatico deve essere antropomorfizzato, riconoscendo che le vite di uomini e animali si possono intersecare nella condivisione dei territori e delle risorse, ma senza sovrapporsi. Mondi che devono restare separati, nei quali gli uomini devono imparare a entrare e uscire in punta di piedi. Con la consapevolezza che la cosa più importante non è vedere o farsi una foto con l’orso, ma riconoscere la sua importanza senza interferire, nei limiti del possibile, con la nostra presenza.
Occorre poi frammentare quelle barriere continue costituite dalle nostre infrastrutture: strade e ferrovie non devono diventare ostacoli pericolosi e insormontabili. Occorre costruire corridoi ecologici, sottopassi, ponti e strutture idonee che consentano agli animali di potersi spostare senza essere costretti ad attraversare strade e autostrade. In Italia se ne parla da decenni ma la loro realizzazione resta sempre ferma al palo, mentre si continuano a teorizzare di opere faraoniche inutili e dannose, come il ponte sulla Stretto di Messina.
Impariamo ad avere coscienza delle nostre azioni, con la consapevolezza di poter creare grandi problemi alla biodiversità
L’orso marsicano è una sottospecie unica, un patrimonio importante costituito da poche decine di esemplari che devo essere considerati preziosi. Perdere un orso, anche un solo orso, rappresenta un enorme danno fatto alla biodiversità, considerando che proprio gli orsi sono considerati una specie ombrello fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio naturale. Difendere gli animali selvatici parte dall’avere comportamenti responsabili: guidare con attenzione e moderando la velocità specie di notte, non alimentando gli animali grazie anche a una corretta gestione dei rifiuti. Ma anche tenendo i cani sempre al guinzaglio quando si fanno escursioni in natura, senza inseguire mai gli animali per fare una foto.
Cerchiamo di veicolare solo informazioni corrette, diffondiamo le buone pratiche come quella di non alimentare e non interagire con i selvatici. Chiediamo ai politici che votiamo di attivarsi per la costruzione dei corridoi ecologici, per dare maggiori risorse in uomini e mezzi alle aree protette. Cerchiamo di essere tutti una componente attiva per la difesa dell’ambiente e di tutte le forme di vita, non fermiamoci a considerare solo gli animali “simpatici”. Ogni essere vivente è importante, ogni organismo ha un suo posto nella natura, anche se spesso non siamo in grado di conoscere quale sia.
Juan Carrito è diventato un simbolo che resterà nel cuore di tutti le persone che si sono in qualche modo occupate di lui. Non lasciamolo diventare un’icona vuota e priva di contenuti, ma trasformiamolo in un animale che è stato capace di indicarci i nostri errori, di insegnarci che non c’è amore senza rispetto e che ogni animale ha caratteristiche uniche e inimitabili. Non esistono animali buoni o cattivi, mentre esistono individui profondamente diversi fra loro, per carattere e comportamento, proprio come lo siamo noi, senza però avere fini diversi che non siano il perseguimento della propria esistenza e della perpetuazione della specie.
Polli e marketing, le bugie della pubblicità alle quali non bisogna credere, come ha dimostrato l’inchiesta di Giulia Innocenzi trasmessa da Report.Scelta per quale occorre sottolineare la correttezza della RAI, che nonostante la Fileni sia un investitore importante, non ha censurato l’inchiesta sull’azienda. Una delle più importanti realtà fra i produttori italiani di polli destinati al consumo, impietosamente messa sotto accusa dalla trasmissione di Sigfrido Ranucci. Chi invece ne esce con le ossa rotte sono purtroppo i polli, ma anche l’azienda e gli organismi di controllo della sanità pubblica.
Il caso di Fileni è solo l’ultimo anello di una lunga catena di abusi che si verificano negli allevamenti intensivi, dove non si parla di singoli episodi di maltrattamento ma di azioni sistematiche. Non episodi di crudeltà costituiti da abusi dei singoli lavoratori, ma decisioni che dipendono dalle catene di comando di queste industrie della carne. Realtà economiche che possono permettersi anche di non rispettare la legge a causa di controlli poco efficaci, di un sistema che tollera anche permanenti carenze strutturali. Ben evidenziate da Report nell’inchiesta che presto diventerà materiale per l’intervento di qualche Procura.
Polli e marketing, le bugie della pubblicità, la falsità delle immagini e le operazioni di greenwashing
La pubblicità racconta di polli che vivono come quelli della foto che illustra l’articolo: un falso che non esiste in alcun allevamento intensivo, neppure in quelli bio. Aggravato da una normativa che consente a un produttore di fare pubblicità alla linea bio anche se questa rappresenta una piccola quota della produzione del marchio. In questo modo il consumatore associa quello che, purtroppo, viene considerato solo un prodotto a una bella vita serena, passata all’aria aperta. Una forzatura fatta per nascondere la realtà di sterminati capannoni dove ogni 40 giorni tutti gli animali vengono abbattuti in contemporanea, dopo una vita in condizioni orribili.
Guardando con attenzione le campagne pubblicitarie delle grandi aziende ci si rende conto che il marketing lavora intensamente per modificare la percezione del consumatore. Eliminando gli animali da contesti scomodi, che non li vedano vivere su verdi praterie, per esaltare il solo prodotto. In questo modo il consumatore è portato a farsi meno domande sulla vita dei polli, ma anche sulla qualità di quello che mette sulla tavola. Così, sempre grazie al marketing, finisce che un’azienda come Fileni riesca a diventare sponsor del Jovabeachtour di Lorenzo Cherubini alias Jovanotti. Oggetto di mille critiche dagli ambientalisti anche per questa scelta.
L’azienda Fileni difende il suo operato dicendo che è tutto regolare, fatto secondo normative, senza commettere irregolarità di sorta. Probabilmente la parola fine la scriverà un tribunale, ma a giudicare dall’imbarazzo dimostrato dalle autorità che dovevano controllare sembra proprio che molte cose non andassero per il verso giusto. Le parole hanno sempre un peso, ma le immagini pesano anche di più e sono state viste da milioni di persone. Così, ancora una volta, con l’industria della carne a basso costo finisce alla gogna anche una sanità pubblica che cerca di nascondersi dietro un dito. Quando non sarebbe sufficiente neanche una quinta teatrale a dissimulare uno spettacolo impietoso.
Contro gli allevamenti intensivi i primi a schierarsi sono i cittadini che non li vogliono a casa loro
Secondo la leggenda del mercato i residenti sono grati a chi gli impianta un’industria sotto casa, contribuendo a dare benessere alla comunità. Nella realtà invece le persone si schierano, contestano gli allevamenti, impugnano le autorizzazioni, denunciano le inadempienze, si lamentano per la puzza. Preoccupandosi anche per la loro salute perché secondo gli studi la più probabile nuova pandemia arriverà proprio da una mutazione dell’aviaria. E gli allevamenti intensivi che concentrano centinaia di migliaia di polli, in ambienti angusti, rappresentano il posto ideale per far prosperare i virus.
Jovanotti aveva definito chi lo criticava un eco terrorista, chissà che nel frattempo abbia avuto modo di fare qualche nuova riflessione. Dopo le inchieste di Sabrina Giannini per Indovina chi viene a cena, trasmissione messa in onda sempre dalla RAI, che si è battuta per denunciare quanto poco ecologico fosse il tour. Dopo la trasmissione di Report che ha dato un’immagine non proprio rassicurante del buono e bio! Del resto che un allevamento intensivo stia all’ambiente come Attila alla pace nel mondo è cosa nota. Che però ancora oggi qualcuno cerca di nascondere sotto un tappeto sempre più piccolo.
Difendere i diritti degli animali significa, anche, difendere i diritti dell’uomo perché se non si cambia il paradigma alimentare basato sulle proteine animali non se ne esce. Questa non è più, da tempo, un’esagerazione dei cosiddetti animalisti ma una preoccupazione, oramai diventa un vero e proprio allarme, dell’intero mondo scientifico. Specie quando non messo sotto contratto dalle aziende che ogni anno nel mondo allevano 25 miliardi di polli, tanto per dare un’idea del business.
Diritti umani e animali: un cammino ancora lungo da percorrere per realizzare il sogno di poter vivere in un mondo diverso, migliore. Guardando la realtà che ci circonda, quello che ogni giorno succede nel mondo, vediamo un pianeta senza equità e senza giustizia. Un meraviglioso pianeta dove quello che più manca è l’armonia, intesa secondo un concetto olistico che abbraccia tutti gli esseri viventi. Questa considerazione porta a una domanda, destinata purtroppo a avere una risposta che non vorremmo né sentire, né accettare. Se non riusciamo a garantire uguali diritti agli individui della nostra specie, potremo mai davvero garantirli agli animali?
Probabilmente no, non sino a quando non ci sarà rispetto vero per i diritti umani. Più facile essere attenti verso chi ci somiglia, piuttosto che verso individui diversi, che non sono neanche in grado di usare parole per comunicare. Bisogna essere dei sognatori nella vita, che non guardano gli ostacoli ma solo i traguardi, capaci di lavorare giorno dopo giorno per raggiungere obiettivi impossibili. Occorre però essere realisti, vedere le cose per come sono, non per come vorremmo che fossero. Solo la conoscenza dello scenario può portare a trovare strategie di cambiamento.
Possiamo sperare che sia riconosciuta come atroce la condizione degli animali che solcano mari e oceani sulle navi stalla, se consideriamo come un “carico residuale” uomini disperati soccorsi in mare? Davvero possiamo credere alla volontà di difendere l’ambiente, e quindi la nostra esistenza, senza che questo comporti la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Ci preoccupiamo molto più di tutelare il nostro benessere, che di pensare come risolvere problemi planetari fondamentali. Per questo dovremmo operare per cambiare gli obiettivi e allargare gli orizzonti. Unendo sotto un’unica bandiera tutti i diritti.
Diritti umani e animali sono un unico problema: bisogna battersi per il loro rispetto
Il razzismo non esiste, non perché non ci siano discriminazioni per questioni di colore della pelle, culture e religioni ma perché non esistono le razze. Esiste la nostra specie, con tutte le sue differenti caratterizzazioni, inclinazioni, credo e modi di vivere, ma tutti gli uomini sono uguali. Esaperare le differenze serve soltanto a non far identificare la nostra appartenenza a un’unica collettività umana. Alla quale, universalmente, dovremmo riconoscere gli stessi identici diritti. Già questo passaggio potrebbe servire a contribuire alla soluzione di molte problematiche ambientali e verso gli altri animali. Animali come lo siamo noi.
Se davvero riconoscessimo a tutti gli uomini il diritto di accedere al cibo necessario e all’acqua pulita saremmo costretti a cambiare lo stile di vita occidentale. Dovremmo riconoscere a tutta la nostra specie il diritto alla libertà e alla necessità di condividere le risorse planetarie. Senza distinzione di genere, di orientamento sessuale o di religione. Dovremmo chiudere le fabbriche di proteine animali e destinare l’agricoltura all’alimentazione delle persone, ma oggi la parte più rilevante di mammiferi che vivono sul pianeta è costituita dai bovini d’allevamento. Che rappresentano da soli circa il 60% della biomassa, mentre gli uomini sono “soltanto” al 36%.
Questo per far comprendere che non si possono difendere i diritti degli animali senza rispettare gli uomini. Non si può dire di amare gli animali, voltando la faccia dall’altra parte quando il Mediterraneo diventa un cimitero. Bisogna smettere di credere e far credere che difendendo i confini e la nostra economia salveremo prima l’Italia, poi l’Europa e infine il mondo. I nostri egoismi finiranno per ammazzarci: per guerre, carestie e mutamenti climatici.
Bisogna insegnare la tolleranza e la condivisione di un mondo che non può più ruotare su economia e prepotenza
La realtà, di cui si parla sempre troppo poco, dimostra che i maltrattamenti che noi infliggiamo agli animali sono gli stessi che noi facciamo patire agli esseri umani. Con numeri inferiori perché gli uomini sono meno, ma quello che accade in molti allevamenti o nei canili lager succede giornalmente nei campi profughi della Libia o nelle carceri di buona parte del mondo. A cominciare dalle nostre di prigioni, come dimostrano le inchieste giudiziarie. Quindi se non vogliamo considerare la battaglia dei diritti come irrimediabilmente persa dobbiamo cambiare le regole del gioco, la cultura, dobbiamo iniziare a coltivare empatia e compassione.
A molte persone questo potrà sembrare un discorso senza senso, una via di mezzo fra un’utopia irraggiungibile e il contrasto perdente a un mondo che non cambierà. Eppure riflettendoci senza pregiudizi dobbiamo ascoltare quello che la scienza, inascoltata, ci sta dicendo da diversi decenni: se non cambiamo modello di vita finiremo per estinguerci. Riconoscere gli altrui diritti potrebbe essere, banalmente, l’unico sistema per assicurarci un futuro. Per dare ai giovani la speranza reale di un mondo diverso, che si concretizzi nei fatti e non negli equilibrismi della politica.
Il cambiamento non è mai facile, e chi sostiene che basterebbe poco è davvero molto poco credibile. Cambiare stile di vita, modificare bisogni e adattare i pensieri costa una fatica immane. Non c’è molto di facile nel nostro futuro, ma prima smettiamo di farci raccontare bugie, cercando di ragionare sulla base dei fatti, e meno dolorosa sarà la via. E sarà più facile affrontarla tutti insieme, piuttosto che subirla divisi in piccoli irriducibili gruppi. Iniziamo proprio dal riconoscimento dei diritti basilari, che devono essere garantiti a tutti. Che potrebbero essere gli stessi indicati nelle 5 libertà minime, individuate da Brambell per gli animali, già nel lontano 1965:
libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione, mediante il facile accesso all’acqua fresca e a una dieta in grado di favorire lo stato di salute
libertà di avere un ambiente fisico adeguato, comprendente ricoveri e una zona di riposo confortevole
libertà da malattie, ferite e traumi, attraverso la prevenzione o la rapida diagnosi e la pronta terapia
libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche, fornendo spazio sufficiente, locali appropriati e la compagnia di altri soggetti della stessa specie
libertà dal timore, assicurando condizioni che evitino sofferenza mentale.
COP27, un pericoloso fallimento planetario che rischia, per il poco coraggio dimostrato dagli Stati, di far esplodere il pianeta. Nonostante si sia chiusa con due giorni di ritardo la conferenza di Sharm El Sheikh, riunione planetaria che doveva fissare nuovi e coraggiosi obiettivi per contrastare i cambiamenti climatici si è conclusa con un nulla di fatto. Unica nota positiva, a cui però manca concretezza, è il fondo Loss & Damage deciso per compensare i paesi poveri dai danni subiti, finanziato agli Stati che sono maggiori produttori di emissioni clima alteranti.
Quella che è apparsa subito chiaro è stata la volontà di non decidere provvedimenti che potessero mettere in pericolo le economie dei paesi più industrializzati, già in crisi a causa della guerra in Ucraina. Quindi l’economia e gli interessi della grande finanza, sono riusciti, ancora una volta a prevalere sul buon senso e sull’urgenza, scontentando ONU e Commissione Europea. Una conferenza decisamente tutta in salita, sia per la discussa sede in Egitto, un paese che non rispetta i diritti umani, che per la risaputa quanto disattesa necessità di agire.
Siamo arrivati a una situazione paradossale ma diffusa, che porta a curare gli effetti del problema senza dimostrare la volontà di occuparsi seriamente delle cause. Come dimostra l’unico provvedimento di rilievo che è stato adottato, cercando di porre rimedio ai danni subiti dai paesi delle aree più povere, come l’Africa sub sahariana. Ora ci vorranno ulteriori dodici mesi per arrivare a una nuova conferenza, un tempo sarà sempre troppo lungo rispetto alle urgenze.
COP27, un pericoloso fallimento planetario nell’indifferenza dei protagonisti, incapaci di vere scelte
In un articolo pubblicato da Repubblica si da notizia di scontri durissimi fra i partecipanti, divisi fra paesi ricchi e poveri da una profonda frattura. Nella consapevolezza che saranno proprio questi ultimi a pagare il prezzo più alto dai cambiamenti climatici, come già sta succedendo ora. Alluvioni, siccità e carestie stanno colpendo duramente il Sud del mondo in modo molto più preoccupante e micidiale di quanto stia succedendo nei paesi ricchi.
“A Sharm abbiamo visto un esplicito tentativo da parte di imprese e paesi produttori di gas e petrolio di rallentare una transizione necessaria e ormai inevitabile”, dice Giulia Giordano, responsabile dei programmi internazionali del think thank italiano Ecco.
Questi erano gli obiettivi, quasi completamente disattesi, dell’Unione Europea per COP27:
mitigazione: mantenere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali
adattamento: stabilire un programma d’azione globale rafforzato in materia di adattamento
finanziamenti: esaminare i progressi compiuti in relazione alla messa a disposizione di 100 miliardi di USD all’anno entro il 2025 per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici
collaborazione: assicurare un’adeguata rappresentazione di tutti i pertinenti portatori di interessi nella COP 27, soprattutto delle comunità vulnerabili
Qualcuno dovrà spiegare alle giovani generazioni le motivazioni del disastro
Questi giorni sono l’esemplificazione del paradosso che stiamo vivendo, sotto il profilo climatico ma anche dell’equità e dei diritti. La COP27 fatta in Egitto, uno stato dove è impossibile parlare di equità e diritti e i mondiali di calcio che si aprono in Qatar, uno regime illiberale, dove anche gli stadi all’aperto sono dotati di impianti per il condizionamento. Uno Stato, il Qatar, con un’impronta ecologica incompatibile con l’attuale situazione climatica. Eppure, per un gioco delle parti, sono proprio questi due paesi ad avere ottenuto l’attenzione del mondo.
Sfondare le gabbie della comunicazione sugli animali, liberandosi dalla ricerca del consenso e mirando a fare informazione di qualità. Cambiando il tipo di informazione, liberandola dagli stereotipi e cercando di essere coinvolgenti. Per non parlare sempre alla platea delle persone già attente, ma per coinvolgere quanti, ai temi dei diritti animali, non si sono mai avvicinati. Qualcuno potrebbe pensare che sia una cosa ovvia, ma per chi si occupa di comunicazione non lo è affatto. La ricerca del consenso e del sostegno, anche economico, porta a investire molto sempre sulla stessa platea e troppo poco sul grande pubblico.
Certo la comunicazione emotiva rappresenta una facile scorciatoia, capace di creare consensi, like e condivisioni. Se l’obiettivo, però, è quello di diffondere buona informazione in questo modo ci si allontana, e molto, dallo scopo. La necessità è quella di coinvolgere non solo i cosiddetti “animalisti”, termine orrendo, ma di intercettare chi potrebbe essere interessato a ricevere nuovi spunti di informazione.Per farlo occorre uscire da alcuni recinti mentali, non sempre così disinteressati, e puntare diritti verso l’obiettivo: per cambiare le cose serve aumentare il numero di orecchie e di occhi. Smettendo di accontentarsi di parlare sempre solo a chi è già d’accordo.
Sfondare le gabbie della comunicazione sugli animali è possibile cambiando la costruzione del racconto
La natura non è disneyana, non è affatto buona per definizione, ma segue precisi disegni che a seconda degli occhi di chi li vive, possono cambiare di prospettiva. I lupi, per usare un animale divisivo, non sono simpatici per definizione, semmai sono indispensabili al mantenimento degli equilibri naturali. Ci sono persone che non condivideranno mai il concetto “io amo i lupi”, ma che potrebbero diventare degli strenui difensori del predatore se conoscessero meglio l’importanza della sua presenza. Perché questo avvenga è importante riuscire a divulgare le informazioni in modo corretto: il fine è quello di informare, non di compiacere.
Sfondare le gabbie della comunicazione sugli animali è molto più complesso che fare una dichiarazione d’amore. Amare qualcuno è una buona partenza, ma solo quando questo sentimento è perfettamente sovrapponibile al rispetto. Per questo l’obiettivo dovrebbe essere, sempre, quello di far comprendere il valore del rispetto, senza mai disgiungerlo da quello dell’amore. Sentimento che certe volte, per troppi animali, si trasforma in una gabbia dalla quale è impossibile scappare. Basti pensare a quanti dichiarano di amare il proprio cane, dimenticandosi dei suoi bisogni per soddisfare i propri desideri.
Difendere i diritti degli animali può voler dire anche andare contro corrente
Cercare di fare corretta informazione può creare spazi di critica, una cosa che deve essere accettata sino a quando tutto si svolge nel contesto di commenti educati. Il pensiero resta libero e non esistono verità assolute, in nessun campo; certo più ci si avventura sui sentieri fin troppo battuti della propaganda e più si rischia di inciampare. Proprio come fanno quelle persone che ancora oggi sono capaci di affermare che i lupi sono stati reintrodotti in Italia. magari con l’aiuto degli elicotteri.
Nonostante le mille emergenze ambientali e la perdita verticale di biodiversità, l’attenzione verso questi problemi non è ancora sufficientemente alta. Eppure per garantite il diritto di esistere, a persone e animali, dobbiamo tutti cercare di essere parte attiva, forse del più grande e rapido cambiamento che sia mai stato richiesto alla nostra specie. Che dopo anni di allarmi inascoltati, si trova di fronte a un bivio senz’appello: cambiare o vivere il peggiore degli incubi. Se non arrivare realmente all’estinzione entro l’Antropocene.
Questo è uno dei motivi sul perché sia così importante cambiare anche i modelli comunicativi. Bisogna essere attenti a non condividere notizie false, solo perché verosimili, non bisogna credere a tutto quello che circola in rete senza verificare, senza guardare la realtà con occhio critico. Quando l’informazione veritiera è difficile da veicolare quella che alimenta il mondo del falso sembra sempre ottenere sempre più credito. Ognuno di noi può fare la differenza, perché fra i diritti da difendere c’è anche quello alla verità e tutti possiamo essere ambasciatori del cambiamento.
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