Virus SARS-Cov-2 aiuta chi disbosca la foresta amazzonica, creando le condizioni di un’impunità di fatto. Grazie all’attenuazione dei controlli e forse a qualche complicità, che ha consentito ai taglialegna di approfittare del periodo. Entrando anche nelle terre dei nativi, con grandi rischi per la trasmissione del virus, mettendo in pericolo gli indios e non soltanto loro.
I dati che raccontano l’incremento delle operazioni di disboscamento sono stati diffusi dal sito Mongabay che ha utilizzato informazioni raccolte tramite il sistema pubblico brasiliano. Secondo l’Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais – INPE nel mese di marzo la foresta amazzonica ha perso ben 327 chilometri quadrati. L’estensione in assoluto più alta dall’aprile del 2008.
All’interno di un ecosistema che non è più lo stesso di dodici anni fa, considerando che in questi anni, fra tagli illegali e incendi dolosi il ritmo della deforestazione è stato impressionante. E la distruzione forestale, non è un mistero, è aumentata in modo esponenziale da quando è entrato in carica il presidente Jair Bolsonaro. Che non ha mai fatto mistero di ritenere l’Amazzonia come una risorsa economica, piuttosto che un patrimonio ambientale dell’umanità.
Il virus SARS-Cov-2 ha contribuito a stendere un velo di silenzio su quello che accade in Amazzonia
Secondo l’INPE i dati del disboscamento, raccolti mediante rilievi satellitari, hanno evidenziato senza possibilità di errore che dal 1° agosto 2019 al 31 marzo di quest’anno in Amazzonia si è compiuto un disastro ambientale. Senza precedenti, che ha fatto perdere al pianeta 5.200 chilometri quadrati di superficie forestale.
Stiamo correndo il rischio che questa gravissima crisi sanitaria spenga tutti gli altri riflettori sulle emergenze del mondo, in particolar modo quelle ambientali e climatiche. Consentendo che durante questi mesi di oblio si compiano scempi che non sarà facile sanare, specie in una condizione economica come quella che lascerà il coronavirus nel mondo, dopo il suo devastante passaggio.
La consapevolezza dei rischi derivanti da cambiamenti climatici e deforestazione non sembra essere così sentita
Il rischio che l’Amazzonia assomigli sempre più a una savana che non a una foresta pluviale diventa ogni giorno più concreto. Con la sua elezione Bolsonaro ha deliberatamente ridotto gli sforzi economici per il contrasto ai crimini ambientali, riducendo le possibilità operative dei controllori e lasciando mano libera ai tagliatori di alberi. Che hanno potuto anche godere di un’amnistia per i reati precedentemente connessi.
Per questo è della massima importanza, per difendere la foresta, la biodiversità e i popoli nativi tenere questi argomenti sempre vivi, diffondendoli e non facendoli diventare temi di minor importanza. Il tempo per garantire la sopravvivenza della nostra specie è davvero agli sgoccioli e non possiamo permetterci dilazioni. Il pianeta non potrà concederci più nulla, se non saremo veloci negli interventi di salvaguardia.
Chi pagherà in modo devastante il tributo della pandemia Covid19, che ha avviluppato il pianeta, saranno gli ultimi. I diseredati, quelli che hanno sempre subito i danni causati dalle rapine e dai crimini ambientali commessi dalle economie dei paesi più ricchi. Questo succederà fra le tribù indio dell’Amazzonia piuttosto che negli slum di Calcutta ,nelle bidonville di Caracas oppure fra i poveri di New York. Chi ha meno non ha soltanto minori disponibilità economiche, ma ha sempre avuto meno possibilità di vivere, anzi di sopravvivere.
La morte sarà anche una livella, come diceva Totò, ma non per tutti arriva nello stesso modo, con le stesse privazioni. Che comportano una speranza vita diversa, molto bassa fra i più poveri. Gli ultimi, quelli di cui pochi si occupano, quelli che raramente ottengono le prime pagine dei giornali, saranno i più falciati in assoluto da questa pandemia. Senza poter ricevere cure, senza essere aiutati nel momento della dipartita, soli così come, in fondo, sono sempre stati nella vita.
Il mondo non sta morendo di epidemia, di Covid19: una parte sta morendo di indigestione. Abbiamo divorato il pianeta, sostituito le foreste pluviali con il latifondo per allevare bestiame, coltivato proteine per produrre carne, con il peggior rapporto di conversione pensabile. Non lo abbiamo fatto per far da mangiare alle persone: la carne a basso prezzo è un vantaggio solo per chi gestisce il mercato. Gli unici a ingrassarsi sono i pochissimi che stanno al vertice della piramide economica, che non è più nemmeno il vertice di un triangolo equilatero, ma la capocchia di uno spillo. Considerando il loro numero rispetto alla popolazione mondiale.
Faremo pagare questa pandemia di Covid19 a quanti incolpevoli?
In fondo in Occidente e nei paesi ricchi, i poteri economici hanno saputo costruire una comunicazione efficace: il pianeta è in affanno ma noi stiamo lavorando per voi. Si sono però sempre dimenticati di farci sapere che, nella realtà, eravamo noi, con i nostri consumi, che stavamo lavorando per loro. Per gonfiare i conti correnti di un capitalismo vorace, che tutto divora e poco o nulla condivide.
Oggi la stampa riporta la notizia del primo indio Yanomami morto in Brasile di Coronavirus. Una morte che potrebbe, in un battito d’ali, essere l’inizio dell’estinzione di una delle ultime tribù che, in gran parte, sono prive di contatti con il mondo esterno. Indigeni che non hanno rapporti con la civiltà, ma solo con minatori illegali e tagliatori di legname, che quotidianamente invadono le loro terre. Culture che erano già destinate a sparire, ma che ora rischiano di farlo molto in fretta.
Con loro scompariranno gli abitanti di quella foresta che per millenni hanno abitato e difeso: giaguari, bradipi, tapiri e pappagalli. In una foresta importantissima che insieme a loro muore sotto i colpi dei bulldozer e delle seghe a motore, per arricchire i trafficanti con il legno e gli allevatori con il suolo.
A destruição segue crescendo enquanto a epidemia da #Covid19 se alastra: os alertas de desmatamento na #Amazônia aumentaram 30% em março, em relação ao mesmo mês no ano passado. Entenda na análise de Márcio Santilli, sócio-fundador do ISA: https://t.co/Aadt2QfQqk
Si alzano sempre più voci sul fatto che nulla debba tornare come prima
L’impressione è che sempre più parte dell’opinione pubblica si sia accorta di vivere in una finzione, come nel fortunato film The Truman Show dove inconsapevoli protagonisti vivevano all’interno di un gigantesco teatro di posa. Questa consapevolezza, nata proprio da questa terribile epidemia, deve essere la miccia per far esplodere il cambiamento, per rimettere al centro il pianeta.
Se non l’avete vista guardate questa puntata di Report, che parla di latifondo in Argentina, di allevamenti e della famiglia Benetton, che possiede sterminati territori in quel continente. Non solo ponti caduti e autostrade, ma un mondo a tutto tondo fatto di contenziosi con le istituzioni, l’ambiente, le tribù indigene che reclamano i territori e il patinato mondo delle catene dei loro negozi in tutto il mondo.
Le comunità in Patagonia che hanno dichiarato guerra ai Benetton.#Report da rivedere:
Il 21 giugno 2020 sono stati registrati, in un solo giorno, 183.000 nuovi casi. La maggior parte dei quali in America Latina. In Brasile sono stati superati i 50.000 morti. In India negli stessi giorni i morti hanno raggiunto quota 13.400 e per l’OMS potrebbe essere solo la punta di un iceberg.
L’olio di palma rischia di diventare un toccasana ambientale grazie alla spinta delle lobby industriali, dei produttori e della solita informazione degli opposti, dove è sempre vero tutto ma anche il suo contrario.
La battaglia si sposta dal campo scientifico ambientale a quello dei social, che oramai ci hanno insegnato come sia quasi impossibile differenziare informazioni vere, false o solo verosimili. Specie da parte di un consumatore sempre più vorace, che digerisce tutto, spesso senza capire cosa abbia davvero ingerito.
Così oramai la battagli sull’olio di palma ha perso mordente, si è sempre più ammorbidita e in alcuni casi ha trasformato la realtà, così l’olio di palma rischia di diventare un toccasana ambientale, con l’approvazione di Greenpeace e del WWF Intenazionale che hanno fatto un pubblico endorsement nei confronti dell’ormai famoso grasso, forse uno dei più controversi, purché coltivato responsabilmente.
La sostenibilità delle coltivazioni di palme da olio è spesso una bugia
Grazie a posizioni molto diverse dei giganti dell’alimentare, troviamo Barilla che sta sostituendo l’olio di palma in tutti i suoi prodotti, dopo le rivelazioni dell’OMS e le proteste dei consumatori preoccupati dei danni ambientali. Sul fronte opposto si schiera invece Ferrero che non toglie l’olio di palma dalla Nutella, dichiarando di approvvigionarsi solo da produttori che garantiscono olio di palma sostenibile.
La magica parola “sostenibile” sta facendo dimenticare persino la più famosa abracadabra, visto che oramai i prodotti si stanno dividendo in sostenibili, nel senso di eco-sostenibili e quindi rispettosi dell’ambiente e delle comunità locali e gli altri, quanti non possono fregiarsi di questo appellativo tanto etico quanto, troppo spesso, decisamente fasullo.
A partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso abbiamo assistito a un disboscamento selvaggio del sud est asiatico, proprio per far posto alle famigerate piantagioni di palma da olio, che hanno trasformato centinaia di migliaia di ettari di foresta in piantagioni mono cultura di palme da olio.
Questo avveniva ed è avvenuto strappando le terre agli indigeni, sacrificando migliaia di animali, alterando equilibri ambientali importantissimi per arrivare a creare sterminate piantagioni di palma da olio, una pianta ad elevata resa, basso costo e alto impatto ambientale, come tutte le monocolture estensive.
Chi non ricorda la foresta data alle fiamme, gli oranghi in fuga e le proteste degli indigeni, spesso represse nel sangue come avviene ed è avvenuto in buona parte del mondo.
Prima si deforesta e poi quando la foresta non c’è più le coltivazioni diventano sostenibili
Ora però l’olio di palma diventa eco-sostenibile, un prodotto amico che non va demonizzato se arriva da produttori che rispettano le regole, che non alterano gli ecosistemi e che sono rispettosi dei diritti, sindacali e salariali, delle comunità locali.
Quindi, penserà qualcuno, esiste un mondo buono e un mondo cattivo in cui si coltiva l’olio di palma? No, purtroppo, la realtà è diversa: esiste un mondo in cui i danni sono già stati fatti, la foresta è già stata distrutta, gli oranghi non ci sono più e ora questo nuovo ambiente è si una foresta, ma di palme da olio. Che diventano sostenibili.
Quando non c’è più nulla da distruggere è evidente che la produzione è compatibile con l’ambiente. Forse. Però non si deve dimenticare che le piantagioni hanno distrutto una gran parte della foresta del sud est asiatico, così come l’allevamento e l’agricoltura estensiva stanno sconvolgendo l’equilibrio del bacino del Rio delle Amazzoni.
Questo non lo dovremmo dimenticare, ma il pubblico dei social, che poi sono il bacino dove le industrie si incontrano con i consumatori, sono troppo spesso così voraci da ingoiare qualsiasi polpetta, anche quelle avvelenate.
Se non impareremo a navigare nel mondo dell’informazione con attenzione il rischio sarà di trasformarci da illusori padroni della rete a facili prede. Se la rete è un bosco sterminato i suoi frequentatori dovrebbero comportarsi come i cercatori di funghi e fare molte attenzione a quanto mettono nel cestino: il web è pieno di funghi tossici.
Così l’olio di palma rischia di diventare un toccasana ambientale. Con buona pace e soddisfazione della famiglia Ferrero.
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