Animale da compagnia, un termine orrendo che nasconde sofferenza
Animale da compagnia: modo antico di tradurre il sinonimo inglese pet, che non rende bene l’idea di quanto il senso di “compagnia” sia spesso un sostantivo usato per giustificare una sofferenza, causata in nome di un bisogno del tutto umano.
Non si tratta infatti, come suggerirebbe il termine, di un mutuo beneficio che due soggetti pattuiscono a parità di vantaggi e con reciproca soddisfazione: nel caso degli animali è troppo spesso una prigionia senza benessere, in cambio di cibo e cure (non sempre assicurate).
Purtroppo non c’è giorno che non emerga un’inchiesta che riveli il tragico mondo degli allevamenti intensivi, dove in nome di un profitto spesso del tutto illecito, si allevano animali senza garantire loro nemmeno le condizioni minime che separano un allevamento dalla tortura.
Questo porta spesso a cercare delle soluzioni, non sempre praticabili, per riuscire a sottrarre gli animali a trattamenti inumani e inaccettabili, che dovrebbero farci vergognare.
Una fra le soluzioni proposte nel caso dei conigli è quella di elevare, dopo un’inchiesta, l’ennesima, il loro status da animali da reddito ad animali da compagnia, il che renderebbe nell’intento dei promotori la loro commercializzazione per fini alimentari non consentita.
Qualsiasi strada, legale, per strappare un animale da condizioni di allevamento inumane è da considerare come un fatto eticamente positivo e questo è indubbio.
Il libro “La collina dei conigli” di Richard Adams descrive in modo abbastanza preciso che cosa significa essere un coniglio e chi l’ha letto può sicuramente ricordare quanto questo “essere coniglio” sia lontano, molto lontano, dalle caratteristiche di un animale domestico.
Soprattutto di un animale destinato a vivere in un appartamento. Il coniglio è una preda, al pari di tutti i roditori, e come tale vive in uno stato di costante attenzione, non ama essere sollevato e rincorso mentre, per contro, ama vivere in branco, scavare tane, giocare con i componenti della sua comunità.
Un coniglio non è più domestico o addomesticabile (termine che suggerisce un angolo di lettura diverso da “domestico”) di un criceto, di un gerbillo, di una cavia, tutti animali che vivono nelle nostre case loro malgrado, costretti a sopportare condizioni di vita spesso molto lontane dai loro bisogni etologici.
Sono consapevole che ci sono associazioni che promuovono una lunga serie di animali come “domestici”, avendo inventato la singolare definizione di “animale domestico non convenzionale”.
Quasi a suggellare il fatto che l’addomesticamento del cane sia frutto di una convenzione e non sia invece passato attraverso 150.000 anni di rapporto con l’uomo. Questo lunghissimo viaggio, partito con un lupo, è arrivato al cane che oggi vive nelle nostre case.
Nascere in cattività non rende un animale domestico
Seguendo questo ragionamento, che non condivido neppure un poco, si arriva a dire che qualsiasi animale riprodotto in cattività può essere considerato un animale domestico e quindi a buon titolo finire nel novero degli animali da compagnia.
Per questo motivo i negozi specializzati traboccano di ogni specie animale, tutti considerati rigorosamente da compagnia: pappagalli, gufi delle nevi, pitoni, camaleonti, ricci africani, puzzole e furetti, gerbilli, tartarughe, petauri e chi più ne ha più ne metta.
Il sostantivo compagnia però fa rima con prigionia, con una forma di schiavitù che non si può far finta di non vedere: un pappagallo in gabbia è come un maiale in un allevamento intensivo ed il fatto di essere nato in cattività non compensa le privazioni di ogni genere a cui è sottoposto.
Ogni giorno leggo centinaia di articoli, post, tweet sui benefici della dieta vegana, ma ne leggo davvero pochi sulla crudeltà di commerciare “animali da prigionia”, forse perché manca il sangue la sofferenza diventa meno percepibile?
In Italia secondo l’ISTAT ci sono circa 60 milioni di animali nelle case degli italiani, di cui solo 14 milioni sono cani e gatti e questo significa che ci sono circa 46 milioni di animali da compagnia non convenzionali (30 milioni sono pesci).
E’ più importante la morte o la qualità della vita?
Qualche domanda dovremmo farcela, dovremmo forse dare alla sofferenza un valore che non sia quello della morte o non solo quello, considerando che è la morte è l’accadimento ineluttabile. Quello che unisce uomini e animali in un comune patimento, considerando che di rado il fine vita, il termine dell’esistenza, ne è privo.
Domanda che dovremmo porci anche a costo di scontentare quella parte di platea che si ritiene animalista, purtroppo con il pappagallo sul trespolo e il criceto nella sua gabbietta.
Comunque quel che appare e che troppo spesso compagnia fa rima con prigionia: questa sofferenza, inutile in quanto non ha alcuna giustificazione né necessità, andrebbe eliminata quanto prima.