Un'allodola rinchiusa in una piccola gabbia da richiamo: non potrà neanche cercare di volare.

Un’allodola rinchiusa in una piccola gabbia da richiamo: non potrà neanche cercare di volare.

Nel nostro paese sembra che le tradizioni, solo perché tali, abbiano diritto ad essere perpetuate, quale che sia il messaggio che tramandano alle nuove generazioni, come se non fosse importante il contenuto intrinseco del quale una tradizione è portatrice, ma solo il fatto di essere un messaggio che perde la sua origine nel tempo.
Questo spiega, in parte, come le “sagre degli uccelli” possano continuare ad esistere, seppur osteggiate da gran parte dell’opinione pubblica che vede in questo tipo di manifestazioni non certo il lato arcaico, ma quello crudele, non il racconto del passato, ma la sofferenza del presente. C’è un’altra spiegazione, più sottile, che è legata alla natura dell’uomo verso il possesso, verso la materiale apprensione di quello che ritiene bello e che può avere: un fiore, un uccello e talvolta una persona. Per centinaia di migliaia di persone, se non forse milioni nella sola Italia, è legittimo tenere in cattività, parola che deriva dal latino e significa prigioniero, un uccello per godere del suo canto e dei suoi colori, ritenendosi “amanti degli animali” a tutto tondo, senza rimorsi o riflessioni: questo anche grazie al minimo sforzo che le associazioni fanno per fare informazione su un argomento invece importante.

Quando poi si unisce la detenzione degli uccelli in gabbia e il mondo venatorio, la detenzione di richiami e la caccia da appostamento, si crea una miscela ricca dei peggiori contenuti dell’animo umano: l’indifferenza verso la sofferenza e l’inganno usato per il proprio piacere. Gli uccelli da richiamo, che siano strappati al cielo da liberi o riprodotti in cattività, in prigionia, sono sottoposti a condizioni di vita inumane, in gabbie piccolissime, tenuti al buio in primavera/estate per fargli credere che l’autunno sia la stagione in cui cantare. Tutto questo avviene nell’indifferenza di chi evidentemente vede gli sventurati uccelli come vedeva Cartesio gli animali: macchine incapaci di provare emozioni, sofferenza, paura. Gli sventurati saranno poi impiegati per ingannare i loro simili proprio grazie al loro canto e in questo modo, con questa azione involontaria e indotta, li richiameranno fino a farli avvicinare alle loro minuscole prigioni, per essere abbattuti con una fucilata da un cacciatore nascosto dentro un capanno: la sofferenza, l’inganno, la morte.

Molto ci sarebbe da dire sui reati che vengono commessi su quella strada che fiancheggia la detenzione e la cattura “legale” di questi uccelli, ma credo che questa parte sia più visibile solo agli addetti ai lavori, questo è il backstage della sofferenza, della crudeltà e dell’inganno. Già questo dovrebbe essere sufficiente per chiudere definitivamente e senza rimpianti le sagre degli uccelli, la cattura dei richiami vivi e la caccia da appostamento, la più vile forma di un’attività venatoria che da tempo ha perso ogni giustificazione.

http://www.nosagraosei.org/

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