Basta trasporto animali vivi, basta crudeltà solo in nome del profitto, basta dover chiudere gli occhi in autostrada per non vedere, sotto il caldo estivo, camion che attraversano l’Europa con un carico di sofferenza, inutile, che è solo un tributo al dio del profitto.
Basta anche considerare certe sofferenze come un male inevitabile perché così non è, senza bisogno di essere vegani ma solo con la necessità di essere umani. Se la nostra specie non la smetterà di guardare il mondo solo e esclusivamente con occhio rivolto al profitto presto si accorgerà di star davvero danzando sull’orlo di un cratere, al quale però sta per saltare il tappo.
Non esiste un solo motivo eticamente accettabile per giustificare le tradotte che scorrazzano per l’Europa con tutto il campionario degli animali destinati all’alimentazione umana: vitelli, vacche, manzi, pecore, maiali, senza dimenticare asini e cavalli.
Le organizzazioni internazionali di protezione degli animali si battono da anni contro questa vergogna, hanno lanciato, tempo fa, la campagna 8hours, con lo scopo di limitare i tempi di trasporto a non più di 8 ore. Per ottenerlo hanno raccolto più di un milione di firme che sono state, di fatto, ignorate dall’Europa.
La lobbie degli allevatori è ben più forte e muove più interessi di quella delle associazioni per i diritti, sia che siano umani sia che riguardino altri esseri senzienti come gli animali.
Il trasporto di animali crea enormi sofferenze
Molti uomini, per fortuna non tutti, hanno questa fantastica attitudine a separare il problema dalla conseguenza: lo fanno con gli immigrati dove il problema lo abbiamo creato noi, ma la conseguenza la vogliamo lasciare a loro, lo fanno con gli animali ai quali il problema lo creiamo noi, con la nostra ingordigia, ma poi ci spogliamo delle conseguenze, lasciandole patire a loro senza nemmeno cercare di alleviarle.
Siamo talmente impegnati nel difendere i nostri diritti da non avere tempo per cercare di capire anche quelli degli altri, bipedi o quadrupedi, che sono forse diversi da noi ma hanno un diritto che ci dovrebbe accomunare: non subire crudeltà.
Provo a dare corpo a un pensiero, provo a dare voce a uno dei forzati dei trasporti, provo a dare concretezza a quello che potrebbe pensare un maiale su un camion che lo trasporta sotto il sole.
“Fatica, grande fatica a stare in piedi su questo piano scivoloso della cosa rumorosa e ondeggiante che non è mai ferma. E’ da quando mi han caricato che ho la paura che mi scorre nelle vene al posto del sangue, non capisco cosa stia succedendo e forse per questo mi sembra di impazzire. E poi fa caldo, troppo caldo, una temperatura impossibile che tutti noi -questa moltitudine che ondeggia, calpesta, si sposta, grugnisce quasi come imprecasse- sopporta a fatica.
Nulla è più intenso della paura, tanto da poterne sentire l’odore
Come la sete perché con questo caldo, con questa paura che ci pervade, tutto accelera, tutto il fisico brucia risorse e la sete morde, è terribile, non ti da pace. Con il terrore negli occhi è difficile poter ragionare, è difficile potersi spiegare cosa succede. Anche se noi non conosciamo il tempo ricordo che è stato il buio della notte che ci ha visto salire su questa cosa e ora il sole è caldissimo e alto.
Non so cosa sarà, non so dove andrò ma ora, dopo una vita disgraziata, vorrei pensare di potermi fermare, anche per sempre, di arrestare i miei pensieri, di trovare pace.”
Il racconto potrebbe durare ancora molto ma credo che poche righe bastino a trasmettere la sofferenza, a far capire, anche soltanto tratteggiandola per l’immaginazione, cosa possa provare un animale che viaggia su un camion, verso un destino a lui ignoto. L’unica cosa che lo differenzia dai poveretti che attraversano deserti e mari per sfuggire a guerre e stenti è l’assenza della speranza.
Quella speranza che nelle prove più terribili aiuta l’uomo a vivere pensando al suo domani e a quello dei suoi cari, quella speranza che non credo risieda nelle possibilità degli animali.
Se guardassimo umani e animali con occhi diversi e con maggior empatia capiremmo come nessuno di noi vorrebbe mai dover affrontare certe prove e, per questo, dovremmo impedire di somministrarle agli altri, spacciandole come una necessità.
Senza entrare nelle scelte individuali dobbiamo smettere di non considerare la sofferenza oppure di considerarla come un fatto ineluttabile. I trasporti di animali vivi non sono una necessità, sono una crudeltà inutile e se allevamento ci deve essere che sia fatto con una regola ferrea e inderogabile: la tutela da ogni sofferenza motivata dal profitto.
Per questo devono smettere di viaggiare gli animali, che potrebbero essere abbattuti dove sono allevati e il trasporto potrebbe riguardare solo le carni. La soluzione, prima di arrivare a un modo vegano, realtà possibile ma lontanissima, è quella dei macelli di prossimità: basta con i viaggi, basta con l’aggiunta di sofferenza a sofferenza.
Se non siete convinti provate a rileggere il pensiero del maiale -certo avrebbe meritato una miglior prosa- e spero possa essere sufficiente a trasmettervi la sua angoscia di essere vivente.