Caccia aperta e tregua finita: il primo settembre in molte regioni italiane sono consentite le aperture anticipate dell’attività venatoria. Soltanto per alcune specie e non in tutta Italia, grazie ai ricorsi proposti dalle associazioni di tutela ambientale presso i tribunali amministrativi, che sono stati spesso accolti, bloccando o limitando l’inizio anticipato della stagione venatoria. Un balletto che si ripete ogni anno: le Regioni pubblicano i calendari, spesso sono illegittimi, ci sono i ricorsi e tutto si ferma.
Le normative consentono alle Regioni di approvare i calendari venatori con grande ritardo, per ostacolare i ricorsi, una pratica questa che dovrebbe essere modificata. Le amministrazioni regionali non dovrebbero poter insistere nell’emettere provvedimenti amministrativi contro legge e restare senza punizione. Costringendo le associazioni a investire denaro in ricorsi che sarebbero inutili, se le osservazioni della magistratura venissero recepite puntualmente negli anni a venire.
Un comportamento inaccettabile in uno stato di diritto, considerando anche che la maggior parte dei giudizi finiscono sempre per avere le spese compensate. Così le Regioni usano i soldi pubblici, mente le associazioni devono usare le risorse di soci e simpatizzanti. Questo per garantirsi il favore dei cacciatori, sempre molto riconoscenti verso la politica che li difende. Eppure la caccia dovrebbe aprirsi la terza domenica di settembre, a chiusura (si spera) della stagione riproduttiva. Una certezza molto opinabile considerando che l’attuale legge ha quasi trent’anni e che allora erano minori gli sconvolgimenti climatici.
Caccia aperta e tregua finita, nonostante la fauna sia un patrimonio collettivo difeso nell’interesse della comunità internazionale
Il tempo di rivedere le normative che riguardano la difesa dell’ambiente e degli animali non è più rimandabile. La decisione non può essere basata su convenienze politiche, su scambi di voti o altri rapporti di forza fra la politica e determinate categorie. La revisione deve tenere conto delle conoscenze scientifiche, molto cambiate rispetto a tante norme, e anche del mutato scenario ambientale. Inutile parlare di transizione ecologica e di green economy se poi nulla cambia davvero, lasciando i cittadini smarriti.
La credibilità di uno Stato deriva dalla capacità di mettere al centro gli interessi collettivi. Che significa avere attenzione per le richieste fatte dalla maggioranza delle persone. Sempre più irritate verso un potere che sembra sordo alle richieste, ma anche alle sue stesse dichiarazioni. Mentre si parla di proteggere un terzo delle aree naturali del pianeta noi cosa facciamo? Apriamo la stagione della caccia in anticipo. Dimostrando quanto la nostra specie non meriti la definizione di homo sapiens, ma al massimo quella di homo insapiens.
Più complesso il discorso dei referendum per l’abolizione della caccia (ben due in contemporanea) che hanno creato una crepa nel mondo ambientalista. Da una parte gli organizzatori dei referendum, l’Associazione Ora rispetto per tutti gli animali e il Comitato Si aboliamo la caccia, dall’altra tutte le altre associazioni, la cui posizione può essere riassunta dal parere espresso dalla LAV. Due posizioni inconciliabili, ma anche due visioni del metodo operativo molto differenti. Certamente un doppio referendum promosso in simultanea dalle associazioni rappresenta un grave errore di metodo, che insieme a molte problematiche tecniche rischia di vanificare le attese.
Se così fosse l’unico vincitore, spiace dirlo, sarà la componente legata al mondo venatorio, che si ricompatterà. Mentre l’opinione pubblica non capirà cosa sia successo nella galassia di quanti si sono sempre dichiarati contro la caccia.
Volere è potere solo quando il percorso per arrivare al risultato è correttamente pianificato
In questo caso, comunque ognuno la possa vedere, è chiaro che la pianificazione del corretto percorso sia saltata. Creando un corto circuito che non solo rischia di vanificare il risultato, l’abolizione della caccia, ma la credibilità dell’intero movimento che difende ambiente e diritti degli animali. In democrazia ognuno può scegliere liberamente cosa fare, nei limiti imposti dalle leggi, ma non bisognerebbe mai dimenticare il contesto. Giuridico, tecnico ma anche mediatico, perché la credibilità deve essere costruita ogni giorno e non tutti i simpatizzanti della galassia ambiental/animalista avranno voglia di entrare nelle pieghe della questione. Di capire le motivazioni di ogni parte che gravita nella medesima orbita.
Un fallimento dell’iniziativa, per mancato raggiungimento del numero di firme, inammissibilità del quesito o mancato raggiungimento del quorum, aprirà ulteriormente le contese e farà gioire i cacciatori, ma non soltanto. E non sarà così facile gettare la responsabilità al di fuori del campo di gioco. Per capire l’ipotetico danno basta pensare ai partiti ecologisti (per non parlare degli animalisti) nel nostro paese, che scontano percentuali di consenso elettorale risibili. Un dato che avrebbe potuto e dovuto far riflettere. Gettare il cuore oltre l’ostacolo, ammesso che questo sia il caso, non è sempre la scelta migliore e sarebbe tempo che si imparasse a fare scelte eticamente politiche. Senza inseguire per forza il consenso.
Ci sarà il tempo per fare ulteriori riflessioni sul referendum
La riflessione al momento si ferma qui. Politicamente sarebbe uno sbaglio addentrarsi ora nelle pieghe della questione, fare riflessioni ulteriori sulla credibilità che viene a mancare. Adesso occorre soltanto cercare di approfondire, non limitarsi a guardare cosa succede sul palco, ma anche provare a capire cosa avviene dietro le quinte. Detto con il massimo rispetto per tutti gli attivisti che in questo momento stanno contribuendo alla raccolta delle firme. Lo fanno con il cuore, e questa ora resta l’unica certezza.