Domesticazione verso addestramento

Domesticazione verso addestramento: concetti e realtà fra loro molto lontane, in parte sovrapponibili, ma con una grande linea di demarcazione nei comportamenti. Nonostante quello che alcune volte, non perfettamente in buona fede, viene usata come argomento per giustificare la cattività.

Per ragioni opportunistiche troppo spesso, quando si parla di animali in cattività, si racconta la leggenda che la prigionia non causi sofferenza dato che questi animali sono nati in ambiente controllato. Come se le specie allevate, solo per questo, dimenticassero d’un tratto di essere degli animali selvatici, prede o predatori, volatori o terricoli.

La domesticazione, in realtà, è un processo lento e che non è sempre riuscito all’uomo. Lo dimostra il fatto che moltissimi sono gli animali allevati per il loro sfruttamento commerciale, ma pochi sono quelli davvero domestici. Secondo gli studiosi, oltre al cane e al gatto, possono essere considerate forme domestiche dei loro progenitori pecora, capra, asino, cavallo, vacche, polli e altre varietà che alleviamo per il consumo di carne.

Mentre non possono essere considerate domestiche le specie allevate che non hanno una consuetudine di vita con l’uomo. Queste vanno dagli animali usati in pelletteria, come i coccodrilli, piuttosto che in pellicceria come i visoni. Ma restano specie selvatiche anche leoni, tigri, elefanti e giraffe, solo per citarne alcune fra quelle usate nei circhi.

La possibilità di gestire un animale non lo rende un domestico

I circensi, per fare l’esempio forse più classico, sostengono che i loro animali vivono in uno stato di benessere perché sono oramai domestici, nati in cattività. Alimentando quella leggenda che vorrebbe far credere che un leone nato e vissuto in un circo diventi come un gatto di casa. Per dar corpo alla veridicità del racconto lo fanno esibendo la capacità di gestire o inibire i comportamenti tipici di un predatore o, comunque, di un animale selvatico.

Questa scorciatoia del ragionamento può avere presa su quella fetta di opinione pubblica che poco o nulla sa di animali, di evoluzione e meno ancora ha conoscenze sul significato di domesticazione. Confondendo così gli animali selvatici, quelli liberi, con i supposti domestici ai quali, erroneamente, apparterrebbero tutti quelli che riusciamo a gestire o con i quali conviviamo.

Proprio grazie a questa favola gli uomini giustificano la detenzione in cattività di moltissime specie selvatiche. Solo per piacere, senza alcuna necessità che possa in qualche modo giustificare la loro prigionia. Una cattività fatta per diletto, che riguarda non gli animali nei circhi o degli zoo, ma milioni di animali, i cosiddetti pets o animali da compagnia.

Analizzando in modo distorto domesticazione verso addestramento molti credono che il falco del falconiere o il leone del circense abbiano un rapporto con l’uomo basato sull’affetto. Come se si trattasse di quello che ci lega al cane di casa.

In realtà si tratta di un condizionamento più o meno severo, ottenuto per il falco tramite la dipendenza indotta dal cibo, mentre per il felino è sempre realizzato attraverso il cibo, ma anche con la selezione di comportamenti graditi. Premiando quelli che si considerano positivi e inibendo quelli considerati negativi, indesiderabili. Meccanismo che può avvenire in modo dolce o doloroso, a seconda della “sensibilità” del soggetto condizionante.

Domesticazione verso addestramento: non si tratta di un condizionamento

Gli animali domestici sono arrivati a noi dopo millenni di selezione operata dall’uomo. Quella che ha portato il lupo a trasformarsi nel cane che oggi conosciamo. Dopo millenni di incroci, di selezioni per ottenere soggetti sempre più mansueti, dipendenti. Sino a quando non abbiamo iniziato a invertire la tendenza cercando di ottenere lupi dai cani, incrociandoli in modo inverso (per semplificare).

Questo ci porta a credere che il pappagallo di casa che sta sulla spalla del padrone o il barbagianni che si posa sul guantone del falconiere dipendano, per loro scelta, dall’uomo. In verità l’uomo li ha semplicemente snaturati, privandoli della dignità senza renderli domestici. Approfittando della debolezza di ogni animale umano o meno: se non vuol morire si deve adattare.

Ogni essere vivente cerca di scappare dal dolore e dalla sofferenza ed è disponibile, per ottenere questo risultato, a modificare i propri comportamenti, salvo in casi rari. Questa modificazione, che non è domesticazione ma il risultato di un addestramento subito, porta a far credere a molti che un leone di un circo, dentro il suo carrozzone, sia in uno stato di benessere.

Dopo millenni i cani schiacciano ancora l’erba prima di accucciarsi

I cani, che rappresentano l’esempio più solido di rapporto, dipendenza e domesticazione, ancora oggi, dopo millenni, prima di sedersi molto spesso girano in tondo, un comportamento ancestrale, messo in atto per schiacciare l’erba e avere così un miglior controllo del circostante. Per vedere le prede, più che per difendersi. I cani discendono dai lupi e sono, e restano animali con istinti predatori, spesso sopiti ma mai scomparsi.

Per questo prede e predatori non dovrebbero convivere, salvo pochissimi e felici casi. In entrambi i soggetti infatti si crea uno stato di costante allerta: per il predatore di eccitazione verso la preda, per quest’ultima di terrore nei confronti del predatore. Insomma l’eterna storia, che non ci ha fatto capire molto, fra il canarino Titti e Gatto Silvestro.

Dobbiamo smettere di credere che gli animali dei parchi divertimenti possano essere felici di avere interazioni con l’uomo. Dobbiamo capire la sofferenza, riconoscerla, per valutare un errore la cattività di molte specie di animali da compagnia. Gli unici felici sono gli uomini: quelli che guadagnano da questo sfruttamento, quelli che si sentono appagati da questo rapporto, senza volersi chiedere nulla di più.

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