
Il mondo brucia e la comunità umana resta ancora immobile, come fosse in attesa di un intervento superiore. Immobile ma irretita da quanti dicono che tutto va bene, dalle politiche delle aziende che si dicono green. Più facile credere alla speranza che invocare l’azione, chiedere il cambiamento, scegliere di aprire gli occhi.
L’emergenza climatica è la più grande spada di Damocle che sia mai stata sospesa sopra la nostra testa, probabilmente da quando noi sapiens abbiamo cominciato a calpestare il pianeta. Nulla, nemmeno le guerre mondiali o le catastrofi nucleari, possono essere paragonate all’avvento di un’apocalisse di queste proporzioni.
Ma questa catastrofe viene raccontata a tratti, annunciata e poi nascosta, raccontata e sdrammatizzata. Come se si stesse raccontando la storia di qualche altro mondo lontano. Quello che invece dobbiamo decidere é se salvare non il pianeta, ma la nostra specie. Il pianeta, comunque, estinti noi se la caverà da solo.
Il mondo brucia, gli oceani salgono, il clima cambia
Le multinazionali hanno capito che le persone comuni sono più preoccupate di quanto lo siano la politica e le grandi organizzazioni del cambiamento climatico, delle problematiche ambientali. In un mondo che da secoli è governato da un’economia sempre più pervasiva, prioritaria. Un’economia che regala benefici apparenti, ma che poi divora la terra sotto i piedi dei suoi clienti. Perché in quest’epoca quel che conta è “hic et nunc”, il “qui ed ora” anche se declinato nel peggiore dei modi.
Per questo gli uomini del marketing e le multinazionali stanno investendo miliardi nel comunicare “politiche green“, quelle che servono a rassicurare i consumatori, a non far scendere le propensioni all’acquisto dei beni di consumo. Politiche che nel peggiore dei casi sono invenzioni, aria fritta venduta come se fossero reali soluzioni. Nel caso migliori si tratta di azioni che mitigano ma non annullano l’impatto.
In questi decenni di consumismo sfrenato gli uomini del mondo industrializzato hanno perso il senso di essere collettività, di diversi unire per risolvere un problema, la capacità di coalizzarsi davvero di fronte a una minaccia. Sono stati anni di paure troppo spesso inventate, allevate e liberate a orologeria e così gli uomini, forse, hanno iniziato a perdere questo istinto.
Siamo animali di branco, ma insofferenti al branco, sempre in cerca di un leader, ma poco inclini a seguire le indicazioni quando confliggono contro i nostri interessi. Vorremmo solo avere i vantaggi del collettivo, senza doverne pagare i costi: ma essere un ibrido fra formiche e cicale non produce risultati.
Il tempo è poco, non dobbiamo sprecarlo in chiacchiere
Inutile piangere su come sia potuto succedere, inutile lamentarsi per quello che non è stato fatto e ancor più inutile, e divisivo, cercare di attribuire la paternità della catastrofe. Ora è il tempo del fare, del mettere al primo posto di ogni e qualsiasi priorità la tutela ambientale e il cambiamento climatico.
Se oggi fossi un uomo del marketing suggerirei ai miei clienti di fare sul serio, di non fare solo campagne “green” senza ricadute reali, di non dichiarare guerra alla plastica, fatto importantissimo ma di lungo periodo. Chiederei di acquistare terre e piantare alberi, di ricostituire ambienti, di combattere la deforestazione, di limitare gli spostamenti via aerea, di usare al meglio le tecnologie.
Bisogna dichiarare una guerra reale ai combustibili fossili, incentivare le energie pulite (eolico e solare), anche a scapito di quelle rinnovabili. Energie che pur non fossili non significa che siano effettivamente pulite, utili e sostenibili. Coltivare piante per produrre bioetanolo sottrae terreno all’agricoltura, solo per fare un esempio. Ma questo è un utilizzo delle risorse che il pianeta non può permettersi.
Non possiamo nemmeno più sostenere gli allevamenti intensivi, le loro emissioni e il consumo di suolo destinato alla produrre cibo per gli animali di questi allevamenti. Il consumo di acqua e il tasso di conversione delle proteine è insostenibile. Al di là di ogni altro aspetto etico.
Seguiamo l’esempio di Greta Thunberg
Occorre che ognuno di noi faccia del suo meglio, secondo le sue possibilità, per cercare di ridurre la sua impronta ecologica. Non solo dobbiamo inquinare meno ma dobbiamo cercare di consumare meno: ricordiamo sempre che qualsiasi politica di riduzione del danno è migliore dell’inazione.
Dobbiamo impegnarci, parlare, manifestare, esserci e cercare di aggregare, di unire, di ottimizzare le risorse.
Dobbiamo ritornare al senso di “collettivo” che era proprio delle società contadine: vivere in comunità è vantaggioso economicamente e riduce il nostro impatto. Proprio come un impianto fotovoltaico è più efficiente, per consumi e impronta ecologica, di dieci caldaie autonome per il riscaldamento.
L’importante è tornare a essere protagonisti del cambiamento, non spettatori sbigottiti che poco fanno e ancor meno sanno. Consapevolezza e azione sono la chiave per vedere un futuro migliore.