La morte in un mondo fatto di prede e predatori, al di la della sua ineluttabilità per tutti i viventi, è una realtà con la quale conviviamo da sempre, una compagna di strada che accompagna la vita e che, a un certo punto indeterminato, la sorpassa e la ferma.
Si può discutere se sia eticamente accettabile per l’uomo uccidere un animale per cibarsene, se sia nei suoi diritti quello di infliggere la morte a un altro essere vivente per trarne un vantaggio; su questa discussione ci sono visioni che coprono ogni possibile millimetro di una smisurata teoria che contrappone, ai due estremi, vegani e onnivori.
Ma non è di questo che vorrei scrivere, forse perché personalmente la morte mi rattrista, non mi indigna, ma lo stesso non posso dire della sofferenza gratuita, inutile, indifferente che noi uomini riusciamo a somministrare, nella nostra delirante totipotenza, all’intera schiera delle creature viventi che calpestano il pianeta, cominciando proprio da quella inflitta ai nostri simili con aberrante noncuranza, come dimostrano i recenti accadimenti, ma anche la nostra storia di uomini.
Nel guardare questa foto, di vacche che dopo essersi fatte un viaggio di migliaia di miglia, su una delle tante navi stalla che ogni anno trasportano dalla civile (non su tutto) Australia ai paesi di Asia e Medio Oriente, viene lo sgomento, sembra di trovarsi di fronte a un dipinto rinascimentale di una crocefissione e si resta attoniti non solo per il potere evocativo dell’immagine, ma per l’indifferenza che ha reso questa crudeltà documentabile, muta nella sua ordinaria sofferenza. Quest’immagine è la rappresentazione della nostra follia, della nostra insensibilità di fronte al dolore, all’angoscia e al terrore. Non si tratta se sia più o meno lecito cibarsi di un animale: questa potrebbe essere definita come l’incompatibilità dell’uomo con l’empatia. Per questo la morte lascia meno sgomenti delle sofferenze volutamente inflitte.
Non crediate che questa foto sia un unicum nel panorama dell’esportazione degli animali vivi, in particolare vacche e pecore, che ogni anno l’Australia esporta. Se cercate sulla rete trovate cose da far accapponare la pelle sui trattamenti inumani che vengono inflitti agli animali, dal viaggio sulle navi stalla, al carico e allo scarico, alle condizioni a cui vengono sottoposti all’arrivo in vari paesi, da Israele alla Palestina, dai paesi del Golfo Persico all’Indonesia.
Mentre in Europa si sta cercando da anni di limitare i danni introducendo un limite massimo di 8 ore per il trasporto degli animali vivi, per ridurre la loro sofferenza, senza peraltro aver ancora raggiunto questo risultato, dal continente australiano partono ogni anno milioni di capi fra ovini e bovini. Le condizioni di questi viaggi e del loro arrivo sono ben documentate da un servizio della televisione d’inchiesta australiana ABC, che potrete vedere, solo se la vostra emotività ve lo consente, qui. Dopo quest’inchiesta, del 2011, il governo australiano ha vietato l’esportazione di bovini verso l’Indonesia
Del resto come sempre non è l’etica, non la riduzione della sofferenza che muove il mondo, ma soltanto il danaro, l’interesse e troppo spesso la cupidigia. Per l’Australia l’esportazione di animali vivi è una parte consistente in termine di punti di PIL e per rendervene conto potete dare un’occhiata alla tabella che segue:

La tabella relativa all’esportazione dei soli bovini vivi dall’Australia al Medio ed Estremo Oriente
Leggendo la tabella si può facilmente comprendere che solo nel 2014 sono stati esportati 1.200.000 bovini vivi, sulle navi stalla. Una realtà inaccettabile, che non tiene in minimo conto i diritti degli animali, ma solo ed esclusivamente il profitto che genera. La (in)civile Australia si dimostra così decisamente colpevole di maltrattamenti agli animali e, per tornare all’incipit di questo pezzo, anche delle persone: chi cerca di migrare in Australia senza visto viene legalmente e inflessibilmente deportato in sperdute isole, che ricordano i campi di concentramento di triste memoria, secondo un’inchiesta recentemente pubblicata da “Internazionale“.
Quanto è ancora lontana la nostra specie dall’essere davvero “umana”.