Il Ministero della Transizione Ecologica riuscirà a guardare oltre il confine, pensando anche al giaguaro?

Ministero della Transizione Ecologica

Il Ministero della Transizione Ecologica dovrebbe occuparsi di tutto quanto riguarda la difesa dell’ambiente. Un panorama ampio che va dalla tutela degli ecosistemi, al contrasto al commercio illegale di specie protette, ai cambiamenti climatici e all’energia rinnovabile. Una sintesi che già per quanto ampia risulta essere già molto riduttiva, in quanto il problema è planetario e anche l’Italia è chiamata a dare il suo contributo.

Cani falchi tigri e trafficanti

Per questo motivo mi chiedo se il neo ministro Roberto Cingolani, figura assolutamente di primo piano e di grande valore, intenda però occuparsi anche di salvaguardare il giaguaro. Il grande felino che era il re del Pantanal, una zona umida che per gran parte si trova in Brasile. O forse sarebbe meglio dire “si trovava” perché a seguito dell’intervento umano sta scomparendo. Per colpa di deforestazione, agricoltura e allevamenti di animali da carne.

La domanda sorge spontanea dopo aver letto su Repubblica, con la quale collaborava alla sezione Green & Blue, quelli che secondo il ministro sono i punti importanti per il cambiamento. E lo sono sicuramente. Ma pur prevendo le necessarie azioni contro i cambiamenti climatici non sembrano volersi occupare del giaguaro del Pantanal. Che certo sarebbe aiutato dalla decarbonizzazione, attività fondamentale per contrastare l’innalzamento delle temperature planetarie. Contrastando tutti i gas serra prodotti in larga parte dalle energie fossili e da altre attività umane. Ma il condizionale è d’obbligo parlando del giaguaro, perché la sua specie potrebbe non arrivare a vedere il cambiamento.

Il Ministero della Transizione Ecologica deve vedere il pianeta e le attività umane come un problema unico e complesso

I sei punti che oggi sono pubblicati da Repubblica, costituiti da articoli non ancora pubblicati dal manager ora ministro, sono più che condivisibili. Ma hanno contribuito ad acuire il mio dubbio, quello che avevo già espresso nell’articolo in cui parlavo dell’accorpamento dei dicasteri. L’impressione, che spero sia fortemente sbagliata, è che tutto ruoti intorno alla tecnologia, alla transizione energetica e a una generica maggior attenzione verso il pianeta.

Non una parola viene su una delle cause principali di questo stato di cose: un consumo di carne smodato che comporta uno sfruttamento scriteriato dell’ambiente. In particolare delle foreste e delle aree naturali, che sono messe sotto pressione prima dal pascolo e poi dall’agricoltura estensiva, che serve a alimentare gli allevamenti. Il ciclo l’ha illustrato molto bene, poco tempo fa, la trasmissione Presa Diretta, che ha fatto vedere come il comparto “allevamenti” si stia mangiando l’Amazzonia.

Guardatela, se ve la siete persa questa trasmissione e capirete perché sia preoccupato per il giaguaro del Pantanal, per se e per tutta la biodiversità che vive in quell’area. Fondamentale per il pianeta, anche se l’uomo sembra che ancora non abbia capito quanto sia importante ridurre drasticamente le proteine animali. In attesa che la carne sintetica, oramai molto vicina a essere una realtà, la soppianti per sempre. Sarebbe meglio prevenire ora, che curare poi, quando il danno sarà stato compiuto.

Occorre avere coraggio e contrastare l’economia di rapina: quella che affama gli uomini, fa patire gli animali, distrugge l’ambiente

L’Europa, Italia compresa, è una grande importatrice di carne proveniente dal Sud America, ma anche di quella soia che viene coltivata dove una volta c’era la foresta. Facendo spostare i pascoli sempre più all’interno dell’Amazzonia, contribuendo alla sua distruzione. Tonnellate e tonnellate di soia che dai porti del Brasile arrivano in Italia, passando per i porti europei, per alimentare gli animali dei nostri allevamenti. Proprio quella che si potrebbe definire una scelta intelligente e a filiera corta.

Sono convinto che il ministro sarà una risorsa per quanto concerne tecnologia e energie rinnovabili, ma resto perplesso, come il giaguaro, sul resto del programma (quello che manca). Sulla tutela dell’ambiente che significa davvero cambiamento, perché se continueremo a entrare in foresta saranno le pandemie a distruggere l’uomo, non viceversa. Ma gli scienziati che lo affermano sono sempre rimasti inascoltati.

Ministro Cingolani dia agli italiani che sono davvero preoccupati per la tutela ambientale un segno. Inserisca quel grande pezzo che manca che riguarda le proteine animali, l’educazione ambientale e magari lo faccia con un attimo di attenzione alla sofferenza degli esseri viventi. Lei che viene dalla robotica sa sicuramente come si possano fare meraviglie, vigilando con la tecnologia, impedendo che il nostro unico pianeta sia sottoposto, ancora una volta, a uno stress che potrebbe non reggere più.

Possiamo cambiare il mondo

Possiamo cambiare il mondo? La risposta è si, se lo vogliamo e se ci impegniamo per farlo. Con una logica di cooperazione nell’interesse comune, influenzando il marketing attraverso consumi consapevoli. Dobbiamo essere convinti che ogni uomo ha il potere di essere artefice del cambiamento, sia in meglio che in peggio, a seconda del suo agire.

La peggior cosa che si possa fare ora è quella di stare fermi, pensando che tanto tutto passi sopra le teste dei comuni cittadini. Che sono costretti a subire senza poter influenzare il cambiamento. Questa visione è sbagliata e rappresenta la principale scusa per non agire, informarsi, partecipare. Ma non è affatto così: l’individuo ha un potere relativo, ma le sue scelte aggregate alle scelte di altri hanno un potere molto grande. I cittadini uniti sono la più grande lobby planetaria.

Prendiamo Greta Thunberg ad esempio: sarebbe sciocco pensare che grazie soltanto a lei il mondo possa cambiare. Greta è stata un catalizzatore e così come un fiammifero può creare un incendio, alcune persone riescono ad aggregarne centinaia di migliaia di altre. Creando modelli di comportamento virtuoso che vengono diffusi, dei quali si parla, che costringono a pensare. Che fanno venire voglia di esserci e partecipare.

Le foreste bruciano e l’opinione pubblica si mobilita

In questi mesi sono bruciate enormi porzioni di foresta, non solo in Amazzonia ma anche in Siberia e in centro Africa. Una perdita di patrimonio enorme, un segnale d’allarme che ha attivato il mondo e ha fatto indignare le persone. Stufe di dover vedere che la questione ambientale non sia tenuta in considerazione come primaria.

Grazie a quanto successo, alle pressioni dei paesi ma anche all’attenzione delle comunità e dei media, oggi i paesi che hanno in comune il patrimonio forestale del Rio delle Amazzoni si sono seduti allo stesso tavolo. Una cosa non da poco che significa condividere informazioni, tecnologie ma anche risorse. Un embrione dal quale si può sviluppare il concetto di “bene comune da tutelare”.

Questo sarebbe un passo avanti importantissimo per la tutela della foresta pluviale. Certo non significa che il presidente del Brasile Jair Bolsonaro sia diventato un ambientalista. Né che abbia deciso di cambiare le sue politiche dall’oggi al domani. Questo non è un punto d’arrivo, ma solo un punto di partenza.

Sette Paesi hanno firmato a Leticia, nella selva amazzonica della Colombia, un accordo per stabilire meccanismi di vigilanza e reciproco appoggio per scongiurare future tragedie ambientali in Amazzonia.
I presidenti di Colombia (Ivan Duque), Perù (Martin Vizcarra), Ecuador (Lenin Moreno), Bolivia (Evo Morales) e Brasile (Jair Bolsonaro), accompagnati dai rappresentanti di Guyana e Suriname, hanno approvato un documento denominato ‘Patto di Leticia per l’Amazzonia’.

Leggete l’articolo sul sito ANSA.it

Un punto di partenza che unito ad altri può dare un risultato, grande, così come lo possono dare le scelte dei consumatori. Non sparirà da un giorno all’altro l’acqua minerale dai supermercati, ma stanno ritornando le bottiglie di vetro, anche in bar e ristoranti. E la grande distribuzione sta modificando molti imballaggi, sostituendo la plastica con il cartone alimentare e con plastica derivante da scarti vegetali.

La filiera corta è possibile per molti prodotti

La GDO avrebbe potuto farlo prima? Certamente si, ma probabilmente il profitto è sempre stato più forte della preoccupazione ambientale. Nel momento però in cui i consumatori decidono di scegliere e diventano massa critica il cambiamento è inevitabile. Se da domani tutti facessimo attenzione sulla provenienza degli alimenti si potrebbe creare un’ulteriore pressione.

Comprare i limoni argentini o i kiwi della Nuova Zelanda non ha senso in un paese che produce entrambi i frutti. Si tratta di scegliere e di far risparmiare tonnellate di emissioni di CO2. Semplicemente agendo come consumatori con scelte responsabili. A filiera corta per l’ambiente e con pochi costi per il consumatore attento.

Noi possiamo cambiare il mondo, senza per questo illuderci di poterlo fare con uno schiocco di dita: lo possiamo fare se scegliamo, smettendo di subire. Difendere il capitale naturale del mondo dipende da tante piccole scelte individuali.

Non smettiamo di credere che le nostre azioni possano contribuire a cambiare il mondo.

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