Leone in fuga dal circo a Ladispoli: come fanno a scappare gli animali dalle gabbie?

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Leone in fuga dal circo a Ladispoli: come fanno a scappare gli animali dalle gabbie? Nonostante le giustificazioni dei circensi, che parlano sempre di sabotaggi organizzati dagli animalisti, l’esperienza mi insegna che la realtà è diversa. Troppo spesso gli animali dei circhi sono mal custoditi, non solo per le loro condizioni di vita ma anche sotto il profilo della sicurezza. Del resto sono i dati della cronaca a dimostrare come in questi ultimi anni dalle strutture circensi sia evaso di tutto: elefanti, ippopotami, leoni e tigri, ma anche lama e giraffe e perfino un ippopotamo.

Animali che in circo non ci dovrebbero più stare da tempo, ma che grazie a una serie di dilazioni imposte dalla politica, sono ancora presenti e costretti in gabbia. Il leone Kimba a Ladispoli ha potuto avere solo sette ore di libertà vigilata, che sicuramente lo ha più spaventato che reso felice. Considerando che questi animali conoscono soltanto la gabbia e la pista e lo spettacolo sotto il tendone. Animali che la legge definisce come “pericolosi per la pubblica incolumità” e che i circhi ancora detengono grazie a apposite autorizzazioni prefettizie. Che dovrebbero servire a garantire la sicurezza dei cittadini ma così quasi sempre non è.

Puntuale come la scadenza della tasse a ogni episodio i circensi, che avrebbero dovuto essere custodi diligenti degli animali, danno la colpa a presunti blitz messi in atto dagli animalisti. Scriteriati che liberano gli animali per creare un danno ai circhi, senza preoccuparsi della sicurezza e dell’incolumità degli animali. Dichiarazioni che si sono sempre rivelate di fantasia, ma che anche se fossero vere dovrebbero far pensare, e molto, sull’idoneità dei circensi a custodire animali pericolosi. Uno dei tanti problemi aperti e mai risolti creati dalla presenza di animali nel circo.

Leone in fuga dal circo a Ladispoli: come avrà fatto Kimba a scappare visto che è considerato un animale pericoloso?

Come detto i circensi per poter detenere animali pericolosi, così classificati per legge, devono avere una speciale autorizzazione rilasciata da un Prefetto. Questa relazione dovrebbe contenere la precisa indicazione del custode, l’identificaziuone dell’animale e il luogo di custodia, che dovrebbe essere individuato sulla base di planimetrie asseverate. Ma, come spesso accade nell’applicazione delle normative in Italia, il ma diventa un forse e il forse si trasforma spesso in un’assenza di verifiche. Così potrebbe essere che nell’autorizzazione prefettizia manchino le planimetrie delle strutture o che queste siano diverse da quelle indicate oppure ancora che le descrizioni siano solo parziali.

Chi controlla non controlla bene, forse non sa effettivamente cosa controllare e così le autorizzazioni che dovrebbero essere puntuali, sono poco rispondenti a un effettiva verifica. Demandando ai circensi di garantire la sicurezza dei cittadini e degli animali. Un grande errore che solo la fortuna ha sempre evitato si trasformasse in una tragedia. Questi controlli spesso inefficaci, mi perdonerà il sindaco di Ladispoli che si è subito chiamato fuori da ogni responsabilità, sono fatti in ogni piazza in cui il circhio decide di far spettacolo. Se fossero fatti in modo serio e con competenza questi episodi non sarebbero così frequenti ma, soprattutto, la vita degli animali nei circhi sarebbe almeno un poco migliore!

A seconda del numero di spettatori che possono essere ospitati sotto il tendone il circo viene visitato dalla Commissione comunale o provinciale di vigilanza, che verifica o dovrebbe verificare molte cose. Fra le quali ci sono sicuramente le strutture che ospitano gli animali e anche quelli identificati come pericolosi. Quindi questa valutazione passa dal vaglio degli uffici comunali, della Polizia Locale e almeno dei Vigili del Fuoco. Per questo non è proprio vero che il Comune di Ladispoli nulla potesse fare. Se avesse probabilmente avuto conoscenza e competenza reale nell’applicare le normative.

Il leone Kimba è stato fatto fuggire dagli animalisti? Se anche fosse significa che la custodia di un animale pericoloso è approssimativa.

Animalisti come commando, che eludono la sorveglianza dei circensi, si infiltrano dietro una fitta rete di strutture a difesa della sicurezza dei cittadini e liberano Kimba. Una ricostruzione ovviamente di fantasia perché le misure di sicurezza sarebbero state al massimo quelle garantite da un chiavistello e da un lucchetto. Non sarebbe servito certo un team della Delta Force per liberare lo sventurato felino. Questo perché nonostante tutto non vengono messe in atto reali misure di sicurezza. Come la recinzione con doppia cinta, allarmi con sensori di movimento o altri congegni elettronici.

I circhi con animali sono oramai un retaggio del passato, dove il maltrattamento è legato alle condizioni di detenzione, le cui regole di fatto non sono mai state fissate. Tanto da dover far intervenire con una atto amministrativo sui generis la Commissione CITES. Che, con buona volontà, ha tracciato un perimetro che la politica in decenni non aveva mai definito. Per colpa grave, lasciando che tutto il settore fosse normato atraverso una legge del 1968 che nulla dice circa gli animali.

Quello che è sicuro è che in questi decenni si sono susseguiti centinaia di migliaia di controlli approssimativi. Spesso fatti senza neanche seguire le regole di minima fissate dalla legge. Perché ogni volta che un circo cambia Comnune è sottoposto a controlli, che però molto raramente si rivelano efficaci. Inutile poi lamentarsi se il leone scappa. Mai come in questo caso risulta vero che le stalle si cerca di chiuderle quando i buoi sono già scappati, come dice il proverbio!

Maltrattamento animale e sofferenza psichica

Maltrattamento animale e sofferenza psichica

Maltrattamento animale e sofferenza psichica: il primo è un reato, la seconda una condizione. Difficile da far apprezzare quando non lascia segni nella carne, non è causa di lesioni, non da luogo a comportamenti esasperati nell’animale. La mancata percezione della sofferenza da parte di chi è chiamato a valutarla non è condizione peculiare di quella animale, molte volte nemmeno quella umana appare chiara a tutti.

La difficoltà di valutare non un episodio, non un fatto specifico, non una privazione che produca conseguenze fisiche, ma una sofferenza causata dalla costante presenza di condizioni afflittive, che impediscano di vivere in una condizione di benessere psicofisico. Non dovrebbe essere una condizione difficile da percepire, ma se non si riesce a vederla nemmeno in un nostro simile quanto può essere difficile capire quella di un leone, rinchiuso in una gabbia?

Molti uomini hanno difficoltà a vedere oltre quanto è rappresentato dalla materialità delle azioni, dalla violenza visiva delle situazioni. Forse non capiscono che gli animali sono come le persone, ognuno ha un suo comportamento, un suo temperamento e un carattere. Ci sono prigionieri che passano la vita a sbattere contro le sbarre e altri che la trascorrono in una rassegnazione muta, ma non per questo meno sofferta.

Non è necessario valutare i valori del cortisolo per accertare la sofferenza

Quando si cerca, nel contrasto dei maltrattamenti sugli animali, di dimostrare la sofferenza muta, quella ambientale, non traumatica subito gli avvocati dell’indagato insorgono. Chiedendo di dimostrare la sofferenza in modo tangibile, ad esempio rilevando il livello di cortisolo, l’ormone dello stress. In un leone del circo, in una tigre magari. Come se fosse facile il prelievo e come se questo test potesse essere risolutivo per la valutazione della sofferenza.

Certo può essere un indicatore, un riferimento, specie quando si conoscano i livelli ritenuti normali, desiderabili. Ma questo discorso diverrebbe molto tecnico e inadatto a queste pagine. Per valutare il benessere o il malessere basterebbe fare alcuni semplici ragionamenti, come per comprendere se possano causare sofferenza.

La miglior definizione di benessere animale ancor’oggi è quella cristallizzata da Donald Broom, professore emerito di benessere animale all’università di Cambridge, che lo ha definito come “Lo stato di un individuo per quanto concerne i suoi tentativi di adattarsi all’ambiente“.

Più un animale, umano o non umano, è in una condizione armonica con l’ambiente che lo circonda, senza ricevere stimoli negativi e migliore e la sua condizione di benessere. In una situazione uguale e contraria un animale si trova invece in una condizione di malessere costante che è causa di sofferenza.

Ci sono forme di tortura, riconosciute come tali sull’uomo, che non sono messe in atto tramite azioni ma sono provocate da privazioni. Vengono indotte artificialmente situazioni che non causano lesioni e sofferenze fisiche apparenti: privazione del sonno, stimolazione acustica costante, limitazione del movimento, alterazione del ciclo circadiano, ridotta somministrazione di liquidi, impossibilità di sottrarsi alla vista, costante senso di trovarsi in pericolo,

Torniamo ora al nostro leone, costretto in uno spazio di 6 metri quadri, confinante con un altro animale (una tigre), per giunta antagonista, senza arricchimenti ambientali, senza possibilità di nascondersi, senza disporre di un spazio sollevato da terra, con uscite saltuarie in un’area vuota e priva di stimoli. Con l’aggravante di essere costretto a viaggiare, durante gli spostamenti, su un carro in ferro, aperto su un lato, non coibentato.

Questa situazione non è stata considerata un maltrattamento penalmente rilevante, nonostante perizie e rilevamenti e l’imputato è stato di conseguenza assolto. Solo perché il tribunale non è stato in grado di apprezzare la sofferenza non traumatica, causata per fini meramente economici, derivanti dalla non volontà di investire in una struttura migliore. Forse anche alla luce del fatto che il leone era stato acquistato per 300 Euro.

Il mancato apprezzamento della sofferenza non deriva, soltanto, dalla non conoscenza dei bisogni di un leone

Troppe volte in materia di maltrattamento animale vengono sottovalutate e non comprese le sofferenze psichiche, che poi si traducono in malesseri fisici o in vere e proprie patologie. Forse solo per mancanza di empatia, di comprensione di cosa possa essere afflittivo per un animale, ma anche per un uomo.

Del resto la sensibilità è una condizione poliedrica che molto spesso non fluisce in modo uniforme. Basti pensare, per andare dal lato opposto, quanti siano sensibili alla sofferenza di un cane, indifferenti a quella di un maiale o di una vacca, desensibilizzati verso quella di uomini e donne che muoiono attraversando i deserti, annegati nel Mediterraneo o che vengono torturati nei campi di concentramento libici, che l’Europa finanzia per lasciare il “nemico alle porte”.

La strada per il riconoscimento dei diritti dei viventi è ancora lunga e non sono così convinto che avremo il tempo di percorrerla tutta. Se non ci fermiamo a riflettere, se non agiamo concretamente rischiamo infatti di essere travolti prima di trovare la soluzione. Nel frattempo le persone di buona volontà continuino ad adoperarsi per cercare di garantire i diritti a chi ne ha meno o non ne ha affatto.

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