
Ora che in gabbia ci siamo noi possiamo riflettere sul valore della libertà, su quanto possa incidere essere liberi di muoversi sul nostro benessere. Di quanto la paura sia in grado di rovinare le nostre vite, facendoci comprendere la differenza fra cacciatore e preda. Eppure le nostre prigioni sono i luoghi che noi abbiamo scelto per vivere, sono le case che abbiamo cercato di rendere accoglienti e ospitali. Che improvvisamente si sono trasformate in prigioni senza sbarre, per colpa di un virus.
Il vero valore delle cose che possediamo spesso lo riusciamo a comprendere a fondo solo quando le perdiamo. Quando passano dall’essere situazioni di normale vita quotidiana trasformandosi in ricordi. Bastano poche settimane per sentirci reclusi, prigionieri in preda all’ansia che in parte deriva dalla perdita di libertà di movimento e in parte dalla paura. Di un piccolissimo granello gelatinoso che ha paralizzato tutti i normali meccanismi sociali.
In pochissimo tempo abbiamo imparato a conoscere situazioni che ci raccontavano i nonni, ma che noi della vecchia Europa conoscevamo solo dai racconti o dalla cronaca di posti lontani. Tanto lontani da noi da rappresentare un altro angolo di umanità, sul quale potevamo leggere notizie senza riuscire per questo a immedesimarci davvero. Lo abbiamo fatto con gli uomini, con la nostra specie, e quindi, con maggior indifferenza, lo abbiamo fatto con gli animali. Imprigionandoli, negandogli i diritti minimi, non dando un valore tangibile alla paura. Non siamo riusciti a immedesimarci nelle loro vite di esseri senzienti.
Il valore della libertà lo si capisce quando la si è perduta, il peso della paura quando ci lacera l’anima
Forse ora siamo in grado di percepire sensazioni che non abbiamo mai provato prima. L’ultima guerra si è conclusa 75 anni fa e la vecchia Europa è sempre stata sfiorata da epidemie, mai così veloci nel diffondersi, mai così letali. Forse siamo in grado di rivalutare cosa voglia dire vivere in un paese in guerra oppure morire a quarant’anni per una sanità inesistente. Possiamo comprendere meglio chi sale sui barconi di notte senza saper nuotare, attraversa deserti e rischia di finire in campi di prigionia.
Proprio noi che sempre molto giudicanti siamo incuranti dei divieti: così ci siamo spostati in lungo e in largo per lo stivale, portando virus in famiglia, andando al mare o a farsi l’ultima sciata della stagione. Rischiando che potesse essere davvero l’ultima. Per superficialità, senza cattiveria. Ma il pericolo, quello vero e collettivo, non è mai per colpa dei cattivi, ma per la responsabilità di chi nega i problemi pur di non cambiare il proprio stile di vita.
Potremmo arrivare a guardare con occhio diverso il pappagallo, il criceto, il pesce rosso che abbiamo costretto a vivere nelle nostre case, per piacere, per soddisfare un nostro bisogno. Oppure aver compreso la sofferenza di vacche, maiali e polli. Dopo solo poche settimane dimostreremmo di aver imparato qualcosa di importante: il valore della libertà e l’angoscia della paura. L’epidemia di coronavirus sarà come aver fatto un corso, tanto accelerato quanto non voluto, ma che purtroppo ha sconvolto le vite di tutti. Per una responsabilità diffusa della nostra specie.
Quando avremo finito di contare le perdite, come in guerra, dobbiamo unirci per impedire che tutto torni come prima
Tutta la sofferenza che questa epidemia ha sparso a piene mani nel mondo deve essere fonte di una rinascita, culturale e di partecipazione. Perché se è vero che nessuna notte è infinita è altrettanto vero che notti come queste rischiano di ripetersi. Con sempre maggiore frequenza, con danni potenzialmente terribili. Come quelli che potrebbero succedere se venisse fatta ripartire l’economia senza preoccuparsi dell’ecologia.
Ci sono conti con il passato che devono essere chiusi, se vogliamo garantite un futuro ai bambini di oggi. L’epidemia ha ridotto l’inquinamento per un po’ e questo fermo potrà avere ricadute benefiche anche sul clima, ma saranno migliorie di corto periodo, se ricominceremo esattamente a comportarci come prima.