Vendetta contro i randagi in Calabria: avvelenati una ventina di cani

vendetta contro randagi Calabria
Foto di repertorio

Una vendetta contro i randagi in Calabria, probabilmente fatta per vendicare la morte di Simona Cavallaro, la giovane rimasta uccisa dopo uno sfortunato incontro a Monte Fiorito. Una mano ignota ha infatti avvelenato una ventina di cani a Catanzaro, che si trova poco lontano dal luogo dell’incidente. Senza valutare che i cani che hanno ucciso la ragazza non erano randagi, ma guardiani di un gregge di pecore. Lasciato incustodito in montagna, come spesso accade senza che nessuno prenda mai provvedimenti.

Qualcuno parla di stricnina, ma non è ancora stato individuato con esattezza il principio attivo usato per far strage di randagi a Catanzaro. Quello che è sicuro al momento è che uno o più criminali abbiano ucciso una ventina di animali, alcuni anche di proprietà. Un episodio che mette ancora per l’ennesima volta sotto i riflettori l’enorme piaga del randagismo in Calabria. Una delle peggiori, se non la peggiore, regione italiana nel contrasto e nella gestione del fenomeno.

Il veleno è uno dei metodi più cruenti di uccisione degli animali, in particolare se fosse stata usata a stricnina, ma anche dei più pericolosi. Chi sparge sostanze tossiche mette in conto che possano essere ingerite da chiunque, animali o bambini. Con conseguenze letali che denotano la pericolosità sociale di chi mette in atto azioni di questo genere. L’avvelenamento di animali è un crimine abbastanza frequente, per la facilità di commissione e per la difficoltà di individuare i responsabili.

La vendetta contro i randagi in Calabria è una colpa di chi, per anni, non ha fatto nulla per arginare il problema

Il randagismo canino e felino è un’emergenza per quasi tutte le regioni del centro e del Sud del nostro paese, ma Calabria e Sicilia hanno il triste primato di essere in vetta alla classifica. Sono le regioni meno virtuose, in un panorama complessivo che denota moltissimi ritardi e inadempienze. Lasciando che il fenomeno dilaghi e che consenta alla criminalità organizzata di avere facili introiti dalla gestione dei canili, dalle catture fatte sul territori. Una realtà ben nota al Ministero della Salute, che non riesce a ricevere alcuna quantificazione sulle popolazioni dei randagi dalle amministrazioni.

Il contrasto al randagismo è una competenza di natura sanitaria in capo ai servizi veterinari pubblici, mentre la gestione degli animali catturati è di competenza dei Comuni. I servizi veterinari dovrebbero garantire la cattura degli animali vaganti sul territorio, la loro osservazione per la prevenzione della rabbia, la sterilizzazione (in sinergia con i Comuni) e il trasferimento degli animali alle strutture comunali. Che dovrebbero avere strutture proprie, che quasi sempre non possiedono, e occuparsi delle adozioni degli animali ospitati, anche in collaborazione con le associazioni di volontariato.

L’iter sembra semplice, ma nella realtà in questa organizzazione tutt’altro che fluida si inseriscono una serie di problemi che inceppano l’ingranaggio. Molti Comuni non hanno canili e si appoggiano a strutture private, che non di rado sono legate a strutture criminali che intimidiscono e intimoriscono chiunque voglia operare controlli. Ostacolando le adozioni, proprio come un proprietario di un albergo cerca di evitare partenze e disdetta da parte dei clienti. Ogni giorno di presenza vale diversi euro e, spesso, pagano la retta anche gli animali deceduti, grazie a scarse verifiche da parte dei servizi veterinari e degli stessi Comuni. Che spesso pagano fatture di migliaia di euro senza svolgere effettivi controlli.

Più randagi ci sono più qualcuno ci guadagna: gli unici a rimetterci sono gli animali e i cittadini, costretti a sopportare maltrattamenti e costi

Gli avvelenamenti di Catanzaro sono il risultato di un randagismo senza controllo, che porta i cittadini ad avere comportamenti incivili o, come in questo caso, criminali. Al vertice delle responsabilità è giusto mettere la sanità pubblica, per colpa, carenza di mezzi ma anche con episodi di collusione con chi sul randagismo guadagna. Nel panorama nazionale sono poche, troppo poche, le azioni di controllo che hanno portato a provvedimenti di sequestro e denunce delle strutture. Mentre sono fin troppe le situazioni di maltrattamento riscontrate, che emergono soltanto quando la situazione diventa esplosiva o difficile da nascondere.

Del resto se così non fosse sarebbe difficile trovare altre motivazioni che giustifichino il randagismo dilagante nelle regioni meridionali. Gli strumenti legislativi, per quanto perfettibili, ci sono e consentirebbero di avere una mappatura precisa di cani e gatti di proprietà, una realtà che, invece, ancora oggi risulta essere una chimera. Più si scende nello stivale e più diminuiscono le percentuali di registrazioni degli animali di proprietà nelle anagrafi regionali. Nell’eterna attesa di avere una sola anagrafe nazionale in cui inserire tutti gli animali domestici.

Continuano a mancare provvedimenti coraggiosi, ma indispensabili, come la sterilizzazione a tappeto degli animali di proprietà. Che garantirebbero una drastica diminuzione dei randagi, che in massima parte sono il prodotto delle riproduzioni indesiderate. Facendo due conti si capisce subito che il costo di queste misure rappresenterebbe una minima parte, confrontata al costo annuale dei canili. Strutture che spesso mantengo imprigionati a vita i randagi, a spese dei contribuenti, che potrebbero avere un diverso futuro se ci fosse la volontà di garantirglielo.

I cani che hanno ucciso Simona Cavallaro non erano randagi e la sua morte non è stata una tragica fatalità

Le persone spesso non fanno la differenza fra randagi e cani da guardiania, messi a controllare gli animali al pascolo. Così tutti i cani che non sono custoditi diventano randagi, come è stato semplificato anche dai giornali nei titoli che hanno riguardato la morte della ragazza. Ma mentre i cani da guardiania hanno l’istinto di difendere la proprietà, cercando di mettere in fuga chiunque minacci come in questo caso il gregge, i randagi non difendono il territorio dagli uomini. Se non vengono messi all’angolo preferiscono in massima parte la fuga all’attacco.

Il quadro del randagismo si è aggravato in questo periodo di pandemia, nel quale le attività di sterilizzazione dei randagi, anche al Nord, si sono molto ridotte a seguito dell’emergenza. Ma gli animali non tengono conto delle difficoltà umane e i loro cicli riproduttivi non cambiano se la comunità umana si trova sotto scacco. Così la moltiplicazione incontrollata vanifica le attività di sterilizzazione messe in atto negli anni precedenti.

Kaos e il veleno dimostrano come sia facile avvelenare i social

Kaos e il veleno

Kaos e il veleno dimostrano come sia facile avvelenare i social, con notizie affrettate quando non palesemente false. Un’esca avvelenata che incendia la rete.

Leggendo la notizia in modo analitico, senza farsi prendere dalla foga emotiva che porta a distribuire like e commenti a raffica, qualcosa non era chiaro da subito.

Questa notizia poteva essere stata ingigantita per emotività del padrone del cane, per scelta, per calcolo ma non c’era nulla, e ripeto nulla, che potesse dare una certezza sull’avvelenamento del cane Kaos.

Non sintomi, non evidenze sulla scena del crimine, non minacce che potessero costituire un indizio. Nulla di nulla che potesse far pensare al fatto che Kaos, cane da ricerca rinvenuto morto, definito dalla rete un eroe per aver lavorato come cane da ricerca durante il terremoto. Questa ipotesi mi è apparsa nitidamente leggendo e ascoltando molte cose scritte e dette sui giornali, sulla rete e sui social. Ma per prudenza ho aspettato gli sviluppi.

Ora i giornali raccontano di una probabile morte per infarto di Kaos, che il suo addestratore non vuole accettare e che definisce senza mezzi termini come una sorta di complotto, orchestrato per mettere a tacere una verità scomoda che aveva avuto un grande clamore mediatico. Eccessivo visto che si trattava di un’ipotesi senza prove.

Partiamo dalla foto che ha fatto il giro dei media, dove si vede il cadavere di Kaos riverso su un lato, quasi composto, senza che ci sia evidenza di spasmi che possono essere causati da alcuni veleni, senza segni visibili di emorragie che possono provocare i topicidi, senza tracce di vomito. Già il quadro fotografico doveva portare a riflessioni e consigliare prudenza. Nulla andava escluso, ma niente era certo.

Poi le testimonianze del proprietario e conduttore di Kaos che, da subito, ha dato per certo l’avvelenamento, senza nemmeno il supporto di un veterinario, senza un’evidenza, senza aver ricevuto minacce, senza una spiegazione. Un cane addestrato a fare il lavoro di Kaos deve essere un soggetto equilibrato, quindi si esclude che possa aver creato un disturbo così persistente da motivarne l’uccisione. Buio fitto, quindi.

Qualcuno sui social ha timidamente messo in dubbio alcuni fatti, ma è stato immediatamente ricoperto di insulti perché Kaos doveva essere stato per forza avvelenato, da una mano crudele e ignota. Lo diceva l’addestratore e con un tifo da stadio lo confermavano i social. Senza riflettere, senza pensare perché in fondo si voleva che fosse così evidente : un uomo aveva ucciso Kaos, cane eroe e non ci poteva essere il beneficio del dubbio.

Fiumi di parole, di notizie, di commenti, di insulti hanno inondato la rete alimentati, forse inconsapevolmente, proprio dal conduttore di Kaos, che si è trovato al centro di un’attenzione mediatica incredibile. Forse anche inaspettata. Lo stesso però che oggi, di fronte a diverse valutazioni che emergono dalle indagini, accusa che dietro all’ipotesi che Kaos non sia morto per veleno parla di complotto, di cane sequestrato (come è giusto che sia) per fare esami che evidentemente non lo convincono.

Gli esami necroscopici indicheranno quale sia la causa che ha portato a morte il cane Kaos e credo che questa indagine sia in buona parte tutta da scrivere o da riscrivere. Però questo caso, spiacevolissimo per la morte di un giovane cane, ha dimostrato come sulla rete si possano spargere in men che non si dica notizie che la incendiano. Anche quando esagerate, sorrette da emotività oppure interesse, ma certo non aderenti alla realtà, specie se date prima della conclusione delle indagini.

Kaos e il veleno hanno dimostrato quanto sia facile coinvolgere emotivamente le persone, di come le false notizie possano diffondersi molto più velocemente di quelle vere. Con la complicità di alcune, troppe, persone che leggono poco, commentano troppo e insultano ancor di più.

La crudeltà contro gli animali è un crimine terribile perché avviene nei confronti di esseri indifesi, ma anche l’abuso di fiducia è un crimine terribile che mina i rapporti fra le persone, che uccide la verità, che distorce quanto avviene in modo potenzialmente  molto, molto pericoloso. Sicuramente Kaos e il veleno, probabilmente inesistente, lo hanno dimostrato.

Gli internauti devono abituarsi a leggere le notizie, a valutare le fonti, a non distribuire like e insulti a pioggia alimentando anche la paura di confrontarsi in  modo civile. Chi non segue la piazza viene lapidato sulle pagine dei social, talvolta con una crudeltà che nemmeno si può credere possa covare nell’animo delle persone (normali).

P.S.: Il cane della foto non è di Kaos ma è un’immagine di repertorio: nessuna di quelle in rete, nemmeno quelle del suo conduttore, sono contrassegnate per il libero utilizzo.

 

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