Juan Carrito è rinchiuso a Palena, centro per gli orsi gestito dal Parco della Majella, in attesa di verdetto sulla sua reimmissione in libertà. Nella più completa mancanza di informazioni: il parco non ha rilasciato più informazioni dalla cattura dell’orso e dall’ingesso nel centro. Un cambiamento di passo drastico rispetto a quanto sempre fatto in questi anni dal Parco Abruzzo, Lazio e Molise. Che ha sempre agito con grande trasparenza e con un costante flusso informativo sulle attività intraprese.
Qualcuno potrebbe dire che sono scelte, considerando che ogni area protetta è autonoma, ma questo non basta a spiegare il buco nero informativo. Nessuna notizia sulle modalità di riabilitazione, sulle tempistiche e sul working in progress che riguarda Juan Carrito. Forse perché questa vicenda sembra destare molto meno preoccupazione di quanto non sia successo quando son stati imprigionati gli orsi in Trentino. Probabilmente confidando sul fatto che in precedenza sia stato fatto di tutto, da parte del PNALM, per evitarne la cattura.
Juan Carrito, ora rinchiuso a Palena, tornerà mai a essere un orso libero?
Con le poche informazioni date dal Parco bisognerebbe avere qualità divinatorie, piuttosto che nozioni di comportamento animale per prevedere il suo futuro. Una scommessa quindi molto difficile. Che vede Carrito involontario protagonista di una complessa gestione che sino dall’inizio suscitava molti interrogativi. Certo sarebbe opportuno che il Parco spiegasse meglio cosa intende fare per riabilitare Carrito. Quali siano i metodi applicati per disabituarlo all’uomo e quali le tempistiche previste.
Senza continuare a lasciare questa vicenda avvolta nella nebbia, facendo temere il peggio. Nell’ambito delle attività di conservazione la comunicazione verso il pubblico è davvero importante. Crea una differenza che riduce la diffidenza, che impedisce di fare ipotesi, magari fantasiose ma plausibili. I metodi, gli esperti in campo, la trasparenza dovuta ai cittadini sono tutti argomenti su cui il Parco della Majella rischia di scivolare su una pelosissima buccia di banana: Carrito.
L’esperienza insegna che gli strumenti di dissuasione dai comportamenti sgraditi possono essere spesso spiacevoli. Specie quando il soggetto è molto testardo, e su questo Carrito risulta imbattibile, e si hanno a disposizione tempi brevi. Un giovane orso non può restare in cattività a lungo prima di essere liberato, per una lunga serie di ragioni. Un orso confidente a maggior ragione, considerando anche le dimensioni ristrette del centro che lo ospita a Palena. Per questo la preoccupazione è legittima e basterebbe poco per fugare i dubbi e rassicurare l’opinione pubblica.
L’importanza di ogni singolo orso marsicano per la conservazione della specie richiederebbe maggior informazione
Partendo dal presupposto che ogni patrimonio collettivo, orsi marsicani inclusi, appartiene a tutti i cittadini è difficile non essere critici sulle modalità informative del Parco. Questa è la ragione che marca fortemente la valutazione su due diversi modi di gestire il flusso di informazioni: quello del PNALM, che si espone anche a critiche a causa delle molte informazioni date, e quello molto, troppo criptico del Parco della Majella. Una strategia di comunicazione che meriterebbe di essere riconsiderata, per dovere e per rispetto.
Il ragionamento, di per se, è molto semplice, ma purtroppo è l’applicazione pratica che difetta. Anche in quei Comuni che si fanno vanto di essere immersi in una natura incontaminata e che poi, nella pratica, sembrano dimenticarsi dei doveri di attenzione che questo comporta. Ora però la cosa più importante è conoscere la sorte di Juan Carrito e mancano molto le lunghe stories che il PNALM faceva regolarmente sui social.
Ibridi di lupo e cattiva informazione uniti possono creare inutili allarmi, specie se a fare affermazioni infondate sono persone apparentemente titolate a farlo. Troppo spesso i media rilanciano informazioni che generano inutile allarmismo e, soprattutto, sono destituite di fondamento, considerando che non sono riconosciute dalla comunità scientifica. Una di queste falsità, che trova spesso spazio sugli organi di informazione, è che i lupi ibridi siano più pericolosi di quelli puri. Un’affermazione fatta senza basi scientifiche, non confermata da episodi oggettivi e quindi da ritenere falsa.
Insomma nulla che lo possa collocare come studioso della vita dei lupi. Il secondo “esperto” risulterebbe essere un biologo marino, che svolge la sua attività prevalentemente per creare progetti europei.Senza nulla togliere al suo sapere sembra che sia più un lupo di mare, che uno studioso di lupi. Eppure entrambi redigono un documento sui predatori, che gira evidentemente per le redazioni e viene ripreso da varie testate. Affermando anche cose condivisibili, sino a quando non parlano di ibridi fra cani e lupi o di un lupo “addomesticato”.
Ibridi di lupo e cattiva informazione possono dare vita a fantasmi che esistono solo nella penna di chi li descrive
Fare divulgazione naturalistica spesso significa dare voce a chi fa ricerca sul campo, a chi svolge la sua attività in un settore specifico. Questo significa anche poter fare affermazioni che sono state validate dagli studiosi, che sono un patrimonio di conoscenza comune. L’errore è in agguato quando non ci si sa fermare per tempo.
Pericolosi e spesso scambiati per lupi, sono gli “Ibridi”, meglio conosciuti come “cani-lupo”, che, più adattati alla presenza dell’uomo, appaiono meno timorosi e più aggressivi; anche su questi animali si sta effettuando da tempo un monitoraggio; tuttavia le analisi effettuate dagli Enti preposti hanno individuato nel Lupo (Canis Lupus Italico) la specie presente nel territorio di Potenza Picena, escludendo, appunto, gli Ibridi.
Iniziamo col dire che i cani lupo riportano alla mente Rin Tin Tin e non certo un ibrido fra un lupo e un canis lupus familiaris. Al di là dell’imprecisione, magari infelice, quello che è certo è che quanto affermato non risponde al vero. E non è dato di sapere su che basi gli enti preposti abbiano mai stabilito che si tratti di lupi puri e non di ibridi, stante che non si citano esami del DNA. Non sono riportate aggressioni verso umani da più di due secoli, come confermano gli esperti, né di lupi, né di ibridi fr cani e lupi. Gli studi, passati e in corso, non hanno determinato una maggior pericolosità dei soggetti ibridi, se non quella per il patrimonio genetico dei lupi.
I lupi ibridi non sono più pericolosi e neanche sono in grado di prevenire i terremoti, come un altro esperto disse in TV
Ognuno che faccia il divulgatore, per passione o per mestiere, dovrebbe parlare di ciò che conosce. Riferendo certezze scientifiche e evitando pericolose scivolate verso affermazioni a effetto, che peraltro danneggiano l’immagine in modo talvolta irreparabile. In effetti se i lupi avessero la capacità giuridica di stare in giudizio credo che sarebbero molti i procedimenti giudiziari per calunnia e diffamazione. E si può affermare, senza tema di smentita, che sarebbero vinti a mani basse.
I giornali, anche quelli online, dovrebbero fare molta più attenzione a quello che pubblicano, perché se già fanno inorridire le affermazioni da “bar dello sport” dei social, quelle sui giornali sono inaccettabili. Esiste un obbligo di verifica, un limite alla decenza spesso travalicato da titoli studiati per fare sensazione, per raccogliere click. Esiste un dovere di fare informazione in modo corretto, leale e veritiero, senza assecondare il padrone di turno (e sui lupi il mondo venatorio e quello agricolo ne san qualcosa). Non perché si è iscritti a un ordine professionale, che potrebbe contare davvero poco, ma per dignità personale.
Nowzad per gli animali afghani ha fatto molto, impegnandosi nella salvaguardia di moltissimi randagi in un paese di fatto mai completamente pacificato. Che ora sta vivendo giorni estremamente complessi, pericolosi e dolorosi. Un dolore che provano gli uomini quando la loro libertà e la loro stessa vita è in grande pericolo, una sorte che colpisce anche gli animali che presto perderanno i loro difensori.
La storia ha avuto inizio 15 anni fa, quando un sergente dei Royal Marines britannici, Pen Farthing, arriva in Afghanistan con la Kilo Company, un’unità scelta composta da 42 commando. Il loro compito era quello di mantenere la sicurezza nella provincia di Helmand. Non vi è dubbio che il sergente Pen fosse una persona già molto attenta ai diritti di uomini e animali, diversamente non si potrebbero spiegare scelte così particolari. Come quelle di occuparsi “anche” di animali in un paese alle prese con una guerra interna e con un’occupazione straniera.
Empatia e sensibilità sono state probabilmente le spinte iniziali che hanno portato il militare a pensare di creare qualcosa di nuovo per aiutare gli animali randagi. L’attenzione verso cani e gatti che vivevano negli agglomerati urbani aumenta in modo proporzionale anche al benessere e alla cultura degli abitanti. Difficile pensare che chi non ha da sfamare la famiglia possa trovare risorse per occuparsi di randagi. Una realtà dura, ma comprensibile.
Nowzad per gli animali afghani è stato come l’accensione di un faro in un mare in tempesta, un segno che indica un porto sicuro
Il sergente Pen ha deciso di non chiudere gli occhi, di occuparsi anche di animali. Dalla sua esperienza in Afghanistan è nato il primo libro, “One Dog at a Time” (Un cane alla volta). Che è servito per portare sotto le luci della ribalta del mondo intero l’attività di Nowzad, quello spirito di aiuto che spesso. incredibilmente, viaggia insieme agli uomini in guerra.
Guerra, violenza, contiguità con la morte possono prosciugare la sensibilità delle persone oppure dargli linfa, energia e coraggio. Chi si trova ogni giorno a vivere in teatri bellici conosce l’orrore, quello vero, che può dare un nuovo impulso alla creazione di energie positive. E così, soldato dopo soldato, cane dopo cane, in questi anni Pen è riuscito a riunire famiglie, sicuramente non convenzionali ma non per questo meno belle, importanti.
Nowzad, che prende il nome dalla prima città in cui Pen ha prestato servizio, è un’organizzazione che è stata capace di riunire cani e soldati. Sino ad oggi sono stati più di 1.600 i cani che sono stati riuniti ai soldati che li avevano adottati in Afghanistan. Consentendo agli animali di poter vivere con i loro nuovi amici, in una parte più fortunata del mondo dove della guerra arrivano solo gli echi lontani.
Purtroppo il tempo per l’organizzazione di poter operare in Afghanistan è finito e ora le priorità sono improvvisamente cambiate. Occorre far tornare a casa lo staff, garantire agli afghani che hanno lavorato per l’organizzazione di trovare asilo nel Regno Unito, portando in salvo anche gli animali presenti nei rifugi. Una corsa contro il tempo che si può vincere solo con l’aiuto di tutto il mondo.
Non dimentichiamo il popolo afghano, diamo una speranza a quanti vogliono poter lasciare il paese, avere un futuro
Non ci si può occupare di animali senza avere sensibilità per gli uomini e le donne di questo paese. Sul quale sta ancora una volta calando la scure dell’integralismo religioso, che vuole le donne private di ogni diritto, compreso quello allo studio. Le donne afghane sono quelle che pagheranno il prezzo più alto con la restaurazione del regime dei talebani. Nonostante le rassicurazioni date all’occidente e già contraddette dai tragici fatti di ogni giorno.
L’Occidente ha fatto un grande errore di valutazione e i danni di questa scelta si potranno quantificare solo fra qualche anno. Nel frattempo abbiamo un dovere morale di aiutare chi vuole lasciare il paese, chi vuole cercare di vivere libero, di costruirsi un futuro meno violento e con maggior libertà. Ogni europeo ha il dovere di fare qualcosa per questo popolo che da decenni sopporta le conseguenze di scelte fatte altrove.
Dalla nostra attenzione al problema afghano, da quanto ne parleranno i media e dalla sensibilità dell’opinione pubblica dipende buona parte del loro futuro. Non dimentichiamo il popolo afghano, non lasciamo vincere l’integralismo religioso.
La Sardegna è in fiamme e si sono già persi più di 20 chilometri quadrati distrutti dagli incendi. In un estate in cui i cambiamenti climatici stanno dispiegando effetti drammatici in molte parti del pianeta. In questo periodo è un continuo inseguirsi di notizie che raccontano gli effetti di un clima alterato, squilibrato dalle attività antropiche, ma anche del gravissimo ritardo nelle azioni umane messe in atto per contrastare i fenomeni.
Fuoco e acqua non sono elementi soltanto di distruzione e in alcuni casi gli incendi possono portare risultati benefici legati al rinnovamento della vegetazione. Non quando sono provocati dalle azioni dell’uomo e non quando avvengono in territori già provati dal dissesto, fortemente antropizzati. In questo caso incendi e alluvioni compromettono il nostro patrimonio naturale, devastano l’ambiente e le città e mettono in pericolo gli animali selvatici e anche quelli d’allevamento.
In queste ore stanno circolando immagini di animali gravemente ustionati o morti a causa degli incendi, ma l’esibizione dei corpi straziati dalle fiamme sembra servire a poco. Infiamma gli animi, stimola empatia verso uomini e animali, ma non sembra produrre cambiamenti nel breve. Eppure è proprio di questi cambiamenti che abbiamo bisogno e ne abbiamo necessità adesso. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale, che faccia comprendere che per difendere i benefici dell’oggi stiamo ferendo a morte il domani.
La Sardegna è in fiamme per colpa dei promani oltre che dei cambiamenti climatici: sono davvero pochissimi gli incendi per cause naturali
Nel corso degli anni il nostro paese ha investito poco o nulla sull’educazione ambientale, sulla necessità di difendere con le unghie e con i denti il nostro capitale naturale. Questo ha prodotto una società solo apparentemente attenta alla difesa dell’ambiente, che ancora non ha capito che non possiamo più restare divisi in famiglie, cerchie amicali e parentali, ma costituiamo un’unica realtà. Che o decide di salvarsi unità oppure soccomberà divisa. Un concetto che non vale solo per l’Italia, ovviamente.
Abbiamo bisogno di avere visioni planetarie, smettere di declinare i ragionamenti dividendo il mondo in “noi” e “loro”. Quando affonderemo condivideremo sorte e disperazione, il disastro sarà comune. Gli eventi causati dalle alterazioni climatiche ci colpiranno tutti nello stesso modo. Come hanno dimostrano le alluvioni in Cina e in India, ma anche in Germania e Belgio. Il famoso “effetto farfalla” che dobbiamo smettere di sottovalutare. Si continua a affrontare il problema su base economica, su quanto ci possa costare abbassare velocemente le emissioni di gas serra. Ma quanto ci sta costando non averlo fatto?
Occorre mettere in campo tecnologia, prevenzione e certezza delle pene, diversamente le normative restano scatole vuote
In un’intervista a La Repubblica il generale dei Carabinieri Antonio Pietro Marzo, che dirige le unità dei Carabinieri Forestali, illustra l’uso di droni e satelliti, per sconfiggere i promani. Ci auguriamo che questa tecnologia funzioni sempre meglio e si diffonda sempre di più. Perché negli incendi di questi giorni in Sardegna qualcosa sembra non aver funzionato in modo puntuale, considerando i risultati. Forse occorre che su questi temi siano investiti più fondi e siano usati anche quelli che stanno arrivando dalla Comunità Europea.
Dovremmo smettere di inseguire gli eventi calamitosi e iniziare a investire molto nella prevenzione, che significa occuparsi del dissesto idrogeologico, del consumo di suolo ma anche nel fare cultura. Nell’educare la società facendo comprendere i benefici, anche economici, che si possono raggiungere difendendo l’ambiente, rispettando la fauna e modificando le nostre abitudini, anche poco alla volta. Bisogna far sapere alle persone che non chiedere piccoli sacrifici, non fare interventi di periodo, che inizino anche subito e che possano produrre riduzioni del danno, costerà a tutti noi, molto, molto di più. In termini di risorse economiche ma anche di vite.
Il ministro Cingolani sulla carne cambia idea, e con un virtuosismo acrobatico modifica il tiro. Complice probabilmente il fatto che l’intervento del cambiamento è stato fatto davanti alla platea di Assocarni. Però vede ministro noi crediamo profondamente che ci debba essere una transizione, ma ecologica non di idee. Modificate non sulla base di nuove evidenze scientifiche, ma delle orecchie che ascoltano l’intervento.
Comunicare è importante e lei è un tecnico, non un politico: per questo quando succedono questi repentini cambi di opinione restiamo disorientati. Il politico per sua natura insegue il consenso, talvolta riesce a farlo meglio, altre è davvero inascoltabile. Ma da lei ministro, da un’uomo di scienza non lo possiamo capire. Lei si è rimangiato non la carne, ma le sue stesse parole. Quelle che ci avevano dato una speranza perché sulla tutela ambientale il suo ministero spesso ci lascia l’amaro in bocca, per restare in tema di cibo.
«Sappiamo – ha aggiunto Cingolani – che chi mangia troppa carne subisce degli impatti sulla salute, allora si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali. D’altro canto, la proteina animale richiede sei volte l’acqua della proteina vegetale, a parità di quantità, e allevamenti intensivi producono il 20% della CO2 emessa a livello globale. Modificando la nostra dieta, avremo invece un co-beneficio: miglioreremmo la salute pubblica, riducendo al tempo stesso l’uso di acqua e la produzione di CO2».
Ministro Cingolani sulla carne cambia idea, ma sarà perché sta parlando ad Assocarni?
Il virgolettato di marzo sembra chiaro, scientifico, incontrovertibile. Infatti come sempre accade gli allevatori fanno una mezza rivolta su queste dichiarazioni. Che dette dal ministro della transizione ecologica sono quelle che chiunque si aspetta. Del resto non era un inno a diventare vegani, ma un monito sui danni ambientali prodotti dagli eccessi del consumo di carne. Che rappresentano uno dei primi problemi da affrontare se si vuole arrivare davvero alla transizione ecologica. Ma poi ecco il salto acrobatico di opinione nell’intervento alla tavola rotonda di Assocarni.
“Abbiamo previsto – ha ricordato Cingolani – misure che servono a rendere sempre più verdi e green le aziende agricole e zootecniche italiane. Il prodotto è già eccellente, noi dobbiamo migliorare la percezione a livello internazionale dell’immagine dell’azienda italiana”. Come? Con misure come il “fotovoltaico sui tetti delle stalle, il potenziamento della produzione di biogas, l’utilizzo dell’acqua piovana tramite i 40 invasi per collazionarla previsti dal piano per avere una impronta idrica ancora più bassa: tutte cose in grado di dare una percezione di azienda italiana high-tech con un prodotto eccellente e sostenibile”.
Possiamo dire che si è trattato di una rivoluzione copernicana sul tema? Che ha lasciato molti senza parole, per la rapidità della variante, una cosa alla quale nemmeno il virus ci ha ancora abituato. Eppure ministro lei sa che al di là della sofferenza animale, che potrebbe ecologicamente non essere produttiva di valori, restano tutti gli altri fattori pesantemente negativi dati dal consumo di carne. E dagli allevamenti, che non diventeranno un’oasi ecologica solo per il solare o il biogas.
Produrre proteine animali con l’allevamento di animali da carne è notoriamente inquinante e irragionevole
Per avere un’idea più concreta del peso sull’ambiente degli alimenti di origine animale basti dire che la loro produzione richiede l’uso di 3,7 milioni di chilometri quadrati di terreno (il 40 per cento della superficie degli Stati Uniti, o 12.000 metri quadrati circa a persona), buona parte dei quali destinati alla produzione dei mangimi, che richiede a sua volta il 27 per cento di tutte le acque irrigue della nazione e circa sei milioni di fertilizzanti azotati all’anno (la metà del consumo totale nazionale), con una produzione di gas serra pari al 20 per cento di quelle del settore dei trasporti e al cinque per cento delle emissioni totali degli Stati Uniti.
Il discorso potrebbe essere molto lungo, ma certo pretendere coerenza di ragionamento è normale. Quando chi si esprime in modo contraddittorio è proprio il ministro che dovrebbe traghettare il nostro paese verso una vera transizione. Che tenga conto degli studi e non solo dell’economia, anche perché è bene ricordare che la finanza ora si sta già smarcando da certi mercati, nei quali aveva investito sino a ieri. Quando le navi affondano gli investitori sono i primi a lasciare il ponte di comando, come dimostrano le scelte dei fondi di investimento su allevamenti e energie fossili.
Ministro ci dia una speranza, ma soprattutto la dia alle giovani generazioni perché il peggio lo subiranno loro, noi saremo già rientrati nel ciclo dell’azoto.
Seaspiracy racconta l’abisso umano, quel buco devastante e profondo capace di inghiottire coscienze e di impedirgli di vedere il futuro. Un docufilm che pur non essendo realizzato in modo magistrale, ed è un vero peccato, ha il merito di costringere le teste sotto il pelo dell’acqua. Mostrando una verità che molti ignorano. Fatta di distruzione degli ambienti marini, non per mangiare ma per cupidigia.
Ancora una volta si dimostra che esiste una parte di mondo che, letteralmente, strappa di bocca le risorse a chi ne ha meno. Causando nel contempo distruzione degli habitat, sofferenze agli animali e ponendo un’ipoteca sul nostro futuro di uomini, che hanno sempre e solo un pianeta dove vivere. Per il quale il benessere di mari e oceani rappresenta una condizione indispensabile, per il governo del clima e non soltanto.
Ma se quello che avviene sulla terraferma è visibile, documentabile con facilità, altrettanto non si può dire di quello che avviene sotto il pelo dell’acqua. Dove navi enormi stanno causando più danni alla fauna ittica e alla vegetazione con quello che distruggono che con quanto pescano per farne cibo. Un po’ come avviene nelle guerre, dove ci siamo inventati il termine giustificativo di “danni collaterali”, per indicare quando i morti sono bambini e comunque civili. In mare, invece, i danni collaterali causano l’inutile uccisione del 50% delle risorse, quelle senza valore, tirate a bordo e poi gettate come rifiuto durante le operazioni di pesca.
Seaspiracy racconta l’abisso umano di quanti mirano solo a guadagnare oggi, come se davvero non ci fosse un domani
Come avviene per gli allevamenti intensivi delle terre emerse anche in mare è l’eccesso di richiesta che sta creando enormi danni ambientali. Un problema che va suddiviso su due piani: uno ambientale, ecologico, di tutela del pianeta e l’altro etico. Comunque lo si voglia guardare il bilancio resta sempre in rosso: impossibile per la sostenibilità, inguardabile sotto il profilo etico. Al di là di qualsiasi considerazione sugli animali e i loro diritti è eticamente inaccettabile uccidere e distruggere solo per far soldi.
Ridurre i consumi di carne e di pesce è fondamentale e ognuno può fare qualcosa: dal limitare all’eliminare le proteine animali
In questi ultimi anni il consumo di carne e pesce è in aumento, spinto anche da infelici iniziative della Comunità Europea che finanzia, ancora oggi e con i nostri soldi, campagne per stimolare i consumi. Grazie alle pressioni delle lobbies dei produttori che cercano in ogni modo di limitare i danni derivanti dalle campagne di informazione. In questo modo i consumatori vengono disorientati, proprio come le sardine quando nel banco si tuffano i delfini. Ma in questo caso le prede siamo noi.
Seaspiracy è un film da guardare sino ai titoli di coda, non mette di buon umore ma serve ad aumentare la consapevolezza. Quanto viene raccontato nel film è quello che accade ogni giorni nei nostri oceani, che in breve tempo, se non verrà fatto qualcosa di concreto, rischiano di trasformarsi in deserti. Facendo nel frattempo morire di fame quelle popolazioni dei paesi più poveri per le quali la pesca è l’unica possibilità di sussistenza. Che un giorno davvero non molto lontano ci presenteranno il conto della nostra stupida ingordigia.
Nel caso non l’aveste visto il consiglio è quello di guardare anche Cowspiracy, il docufilm che mostra quanto avviene in terra, negli allevamenti intensivi. Raccontando i danni collaterali derivanti dalla produzione di carne.
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