Il comportamento arrogante della regione non deve essere piaciuto al presidente del TAR di Catania, che ha nuovamente disposto la sospensiva. Ora sarebbe opportuno che ci fosse un’attivazione della magistratura ordinaria, per valutare il comportamento dell’assessore. Inaccettabile sotto il profilo della buona gestione delle istituzioni. Un gesto plateale che è servito a far sparare qualche giorno prima del 2 ottobre, data indicata da ISPRA per l’apertura della caccia. In una regione che è stata devastata dagli incendi.
Difficile insegnare il valore del rispetto della legge se la politica si comporta in questo modo. Disprezzando le decisioni della magistratura al solo scopo di agevolare i cacciatori. Fortunatamente questa ulteriore pronuncia del tribunale amministrativo dovrebbe aver messo un punto fermo. Caccia vietata sino al 2 ottobre.
Caccia in Sicilia bloccata, con la politica che scivola sull’arroganza
La morale di questa vicenda lascia comunque l’amaro in bocca. In un paese che ha spesso ha amministratori troppo disinvolti per poter restare al loro posto. Con una classe politica che raramente paga il conto della cattiva amministrazione, degli interessi e dei favori. Politici disposti a passare sopra legge e buon senso pur di essere rieletti, trasformando in commedia una tragedia come gli effetti degli incendi e la siccità. L’Italia non potrà fare passi in avanti sino a quando gli elettori non pretenderanno candidati e programmi basati sul rispetto della legalità e dell’interesse comune.
Questa piccola battaglia di legalità è stata vinta, ma la caccia avrebbe dovuto restare completamente chiusa quest’anno. Per tutelare la fauna, per mettere nella giusta considerazione un’attività che è soltanto un gioco, di pochi, che danneggia un bene collettivo.
Caccia e arroganza in Sicilia vanno sottobraccio, utilizzando metodi che sembrano essere oltre il lecito esercizio del potere politico. Il TAR, decidendo sul solito ricorso presentato dalle associazioni, stabilisce che la caccia debba restare chiusa e vada aperta a ottobre. Bloccando così con decorrenza immediata la prevista apertura del 1° settembre. Ma l’assessore regionale Antonino Scilla non è d’accordo e si inventa una manovra corsara per non perdere consensi.
Una storia che merita di essere raccontata seguendo il filo degli eventi che la compongono. Tenendo ben presente che questa estate la Sicilia è stata una regione devastata dagli incendi. Con tutte le conseguenze del caso sulla fauna, che ha subito tutte le avversità derivanti dalla distruzione ambientale e dalla siccità. Un problema che per gli amministratori regionali deve essere sembrato secondario, rispetto agli interessi del potente mondo venatorio.
Caccia e arroganza in Sicilia vanno da sempre sottobraccio, con la regione prona davanti alle richieste dei cacciatori
Le motivazioni del presidente del TAR Pancrazio Maria Savasta non lasciano né dubbi, né vie d’uscita agli amministratori. Il calendario deve conformarsi alla situazione ambientale e al parere dell’ISPRA. Quindi la caccia potrà aprire ma solo a ottobre. Ovviamente la decisione, presa in punta di diritto, fa esultare gli ambientalisti e strepitare i cacciatori. Un amministratore saggio e disinteressato si conformerebbe all’ordinanza della magistratura amministrativa, specie dopo aver letto le ragioni che motivano il provvedimento.
“Ritenuto che, impregiudicata ogni valutazione in rito e sul fumus di fondatezza del ricorso, rimessa all’Udienza camerale di rinvio in composizione collegiale, sussiste il presupposto per l’adozione della misura cautelare monocratica, poiché, nel bilanciamento dei diversi interessi, anche in considerazione della rappresentata particolare situazione emergenziale nel territorio siciliano occasionata da diffusi incendi sviluppatisi nel periodo estivo e degli intuibili effetti sull’ambiente e sulla fauna stanziale, appare prevalente l’interesse pubblico generale alla limitazione dell’apertura della stagione venatoria, così come proposta, motivatamente, nel parere prot. n. 33198 del 22.6.2021 dell’ISPRA”
Tratto dal decreto del presidente della sezione distaccata di Catania del TAR Sicilia emessa in data 31 agosto 2021
Cosa decide di inventarsi l’assessore Scilla per far contenti i cacciatori isolani? Annulla in tutta fretta il provvedimento impugnato dalle associazioni presso il TAR e emette una disposizione che contiene un nuovo calendario venatorio. Stabilendo di fatto che la caccia possa essere subito riaperta, con grande soddisfazione del mondo venatorio. Le associazioni di protezione ambientale minacciano ulteriori azioni legali e anche di segnalare i fatti, incredibili, alle Procure della Repubblica e alla Corte dei Conti. A buona ragione in quanto un comportamento di questo genere, messo in atto da un amministratore pubblico, è eticamente inaccettabile.
La caccia dovrebbe essere vietata per l’intera stagione nelle regioni che hanno subito gravi danni al patrimonio ambientale
Per questo sarebbe un gesto di grande responsabilità, che forse potrebbe anche servire come deterrente per i piromani, vietare la caccia per tutta la stagione. Dando un momento di respiro alla fauna e consentendo una reale tutela del nostro capitale naturale. Senza poter scordare che l’attività venatoria non è un diritto incomprimibile, per quanto riconosciuto, ma soltanto un’attività ludica e come tale davvero poco importante di fronte situazioni come quelle registrate.
Il patrimonio naturale è di proprietà dell’intero paese e la sua tutela dovrebbe avere la priorità su qualsiasi altra considerazione. La politica non può continuare a gestire i beni collettivi come strumenti per ottenere consenso elettorale e i cittadini devono alzare sempre di più la voce. Non può essere accettato che il parlamento non pensi a immediate e serie modifiche della normativa ambientale, cambiando completamente il senso delle priorità. La caccia non può più essere considerata uno strumento di gestione della fauna ma deve essere vista come un’attività ludica che non ci possiamo più permettere.
Caccia aperta e tregua finita: il primo settembre in molte regioni italiane sono consentite le aperture anticipate dell’attività venatoria. Soltanto per alcune specie e non in tutta Italia, grazie ai ricorsi proposti dalle associazioni di tutela ambientale presso i tribunali amministrativi, che sono stati spesso accolti, bloccando o limitando l’inizio anticipato della stagione venatoria. Un balletto che si ripete ogni anno: le Regioni pubblicano i calendari, spesso sono illegittimi, ci sono i ricorsi e tutto si ferma.
Un comportamento inaccettabile in uno stato di diritto, considerando anche che la maggior parte dei giudizi finiscono sempre per avere le spese compensate. Così le Regioni usano i soldi pubblici, mente le associazioni devono usare le risorse di soci e simpatizzanti. Questo per garantirsi il favore dei cacciatori, sempre molto riconoscenti verso la politica che li difende. Eppure la caccia dovrebbe aprirsi la terza domenica di settembre, a chiusura (si spera) della stagione riproduttiva. Una certezza molto opinabile considerando che l’attuale legge ha quasi trent’anni e che allora erano minori gli sconvolgimenti climatici.
Caccia aperta e tregua finita, nonostante la fauna sia un patrimonio collettivo difeso nell’interesse della comunità internazionale
Il tempo di rivedere le normative che riguardano la difesa dell’ambiente e degli animali non è più rimandabile. La decisione non può essere basata su convenienze politiche, su scambi di voti o altri rapporti di forza fra la politica e determinate categorie. La revisione deve tenere conto delle conoscenze scientifiche, molto cambiate rispetto a tante norme, e anche del mutato scenario ambientale. Inutile parlare di transizione ecologica e di green economy se poi nulla cambia davvero, lasciando i cittadini smarriti.
La credibilità di uno Stato deriva dalla capacità di mettere al centro gli interessi collettivi. Che significa avere attenzione per le richieste fatte dalla maggioranza delle persone. Sempre più irritate verso un potere che sembra sordo alle richieste, ma anche alle sue stesse dichiarazioni. Mentre si parla di proteggere un terzo delle aree naturali del pianeta noi cosa facciamo? Apriamo la stagione della caccia in anticipo. Dimostrando quanto la nostra specie non meriti la definizione di homo sapiens, ma al massimo quella di homo insapiens.
Più complesso il discorso dei referendum per l’abolizione della caccia (ben due in contemporanea) che hanno creato una crepa nel mondo ambientalista. Da una parte gli organizzatori dei referendum, l’Associazione Ora rispetto per tutti gli animali e il Comitato Si aboliamo la caccia, dall’altra tutte le altre associazioni, la cui posizione può essere riassunta dal parere espresso dalla LAV. Due posizioni inconciliabili, ma anche due visioni del metodo operativo molto differenti. Certamente un doppio referendum promosso in simultanea dalle associazioni rappresenta un grave errore di metodo, che insieme a molte problematiche tecniche rischia di vanificare le attese.
Se così fosse l’unico vincitore, spiace dirlo, sarà la componente legata al mondo venatorio, che si ricompatterà. Mentre l’opinione pubblica non capirà cosa sia successo nella galassia di quanti si sono sempre dichiarati contro la caccia.
Volere è potere solo quando il percorso per arrivare al risultato è correttamente pianificato
In questo caso, comunque ognuno la possa vedere, è chiaro che la pianificazione del corretto percorso sia saltata. Creando un corto circuito che non solo rischia di vanificare il risultato, l’abolizione della caccia, ma la credibilità dell’intero movimento che difende ambiente e diritti degli animali. In democrazia ognuno può scegliere liberamente cosa fare, nei limiti imposti dalle leggi, ma non bisognerebbe mai dimenticare il contesto. Giuridico, tecnico ma anche mediatico, perché la credibilità deve essere costruita ogni giorno e non tutti i simpatizzanti della galassia ambiental/animalista avranno voglia di entrare nelle pieghe della questione. Di capire le motivazioni di ogni parte che gravita nella medesima orbita.
Un fallimento dell’iniziativa, per mancato raggiungimento del numero di firme, inammissibilità del quesito o mancato raggiungimento del quorum, aprirà ulteriormente le contese e farà gioire i cacciatori, ma non soltanto. E non sarà così facile gettare la responsabilità al di fuori del campo di gioco. Per capire l’ipotetico danno basta pensare ai partiti ecologisti (per non parlare degli animalisti) nel nostro paese, che scontano percentuali di consenso elettorale risibili. Un dato che avrebbe potuto e dovuto far riflettere. Gettare il cuore oltre l’ostacolo, ammesso che questo sia il caso, non è sempre la scelta migliore e sarebbe tempo che si imparasse a fare scelte eticamente politiche. Senza inseguire per forza il consenso.
Ci sarà il tempo per fare ulteriori riflessioni sul referendum
La riflessione al momento si ferma qui. Politicamente sarebbe uno sbaglio addentrarsi ora nelle pieghe della questione, fare riflessioni ulteriori sulla credibilità che viene a mancare. Adesso occorre soltanto cercare di approfondire, non limitarsi a guardare cosa succede sul palco, ma anche provare a capire cosa avviene dietro le quinte. Detto con il massimo rispetto per tutti gli attivisti che in questo momento stanno contribuendo alla raccolta delle firme. Lo fanno con il cuore, e questa ora resta l’unica certezza.
Caccia aperta e pace finita dal 20 settembre alla fine di gennaio: lo Stato consegna la fruizione di una gran parte delle aree naturali ai cacciatori. Che quest’anno non potranno certo dimenticarsi dei loro sostenitori politici visto che l’apertura della caccia coincide con il giorno delle elezioni. I cacciatori sono sempre meno, ma appare evidente che contino più di quanti a caccia non vanno.
Il potere, anzi lo strapotere, di determinate categorie è dovuto in fondo non tanto ai numeri di ognuna, ma alle sinergie che sono state costruite. Cacciatori e agricoltori sono due categorie che spesso hanno interessi comuni, che uniti a quelli dell’indotto armiero e venatorio, costituiscono un grande potere. Economico, elettorale e di conseguenza politico. Tanto da costringere la politica a scendere a patti. Penalizzando la maggioranza degli italiani, meno coesi su fronti comuni.
Se noi pensiamo, analizzando la questione venatoria solo alle scorribande nelle campagne, rischiamo di perdere il senso della realtà. Ma anche di non essere in grado di mettere in campo strategie che vadano a spezzare i fondamentali di queste alleanze. Anelli di una catena fatti di favori reciproci, di voti e veti incrociati che fanno sì che la situazione resti immutata nel tempo.
Caccia aperta e pace finita per animali e cittadini, anche se in realtà la guerra con il mondo naturale non chiude mai
Occorre chiedersi come mai agricoltori e cacciatori siano così coesi e come mai, ad esempio, non si metta mai in dubbio la validità della gestione faunistica fatta con le doppiette. Dopo decenni di fallimenti nella gestione della fauna e dopo altrettanto tempo in cui i cacciatori non sono stati la soluzione ma la causa dei problemi. Lo dimostrano le immissioni dei cinghiali balcanici, più prolifici e grandi di quelli italiani, o quelle della fauna alloctona. Come le minilepri, il colino della Virginia e gli stessi fagiani.
Animali che non avrebbero dovuto essere introdotti in natura, cosa invece avvenuta nel corso di pochi decenni, con la sola esclusione del fagiano, che vanta millenni di colonizzazione del nostro paese. Animali che poi si pretenderebbe di eradicare (dopo avercele messe) dal territorio come avviene con le minilepri. In fondo fallimenti e abusi sono sempre stati tollerati, per due ragioni. Una economica e una dovuta al costante tamponamento dei problemi causati dalle specie che creano danni all’agricoltura.
Nutrie, piccioni, cinghiali, caprioli e altre specie sono costantemente oggetto di abbattimenti controllati perché sono troppi. Recentemente la sola Lombardia ha “regalato” a meno di 700 cacciatori ben 20.000 piccioni, da abbattere durante la stagione della caccia. Un contentino per gli agricoltori, che possono integrare questa quota con quelle già previsti dai piani provinciali. Senza preoccuparsi di mettere in atto misure che non agevolino riproduzione e alimentazione dei colombi negli allevamenti.
Parlare di strapotere dei cacciatori limita l’orizzonte di un problema più ampio, da analizzare con cura
La gestione faunistica a colpi di fucile non ha risolto un solo problema negli ultimi decenni, mentre ne ha creati davvero tanti. A cominciare dall’inquinamento causato da tonnellate di piombo che ogni hanno sono sputate dai fucili nell’ambiente. Per non parlare del bracconaggio, dei maltrattamenti agli animali vivi usati come richiamo e a pratiche decisamente poco ortodosse. Grazie anche a una normativa che prevede sanzioni ridicole per chi sbaglia la mira. Spesso centrando anche ignari cittadini o compagni di battute di caccia.
Per cambiare la situazione bisognerebbe iniziare guardare la natura come un unico ecosistema, tenuto in equilibrio da meccanismi delicati che noi abbiamo stravolto. Non vogliamo i grandi carnivori, per qualche predazione sul bestiame, ma poi chiediamo ai cacciatori di far strage di ungulati in quanto troppi. Mentre se la selezione fosse fatta dai lupi avremmo già risolto il problema, in modo del tutto naturale.
Quindi non bisogna dire che i cacciatori hanno tutte le colpe: come il ragno hanno tessuto una tela perfetta di alleanze. Che nemmeno il buonsenso riesce a sgretolare, perché fino ad oggi l’etica è stato un valore morale, ma l’economia una realtà sostanziale. Alla quale abbiamo permesso di avvelenare i pozzi, di condizionare le scelte della politica e di divorare sempre più natura. Facendo finta di non vedere che questa economia è gestita da meno persone di quelle che starebbero a bordo di una nave da crociera. E intanto, la nave pianeta, piano piano affonda.
Riapre la caccia, anche in tempi come questi, con i soliti riti: aperture anticipate impugnate in tribunale, arroganza di cacciatori e associazioni venatorie, immobilismo legislativo. Con un pizzico, neanche troppo piccolo, di politica, visto che il 20 settembre si vota in molte regioni. E i cacciatori sono elettori fedeli, che non dimenticano. E che quest’anno lo faranno ancora meno visto che tornata elettorale e apertura ufficiale della stagione venatoria coincidono nello stessa domenica.
Il TAR del Veneto ha sospeso ieri l’apertura anticipata della caccia per cinque delle sette specie permesse, grazie a un ricorso presentato dalle associazioni LAC, WWF Italia, LIPU, LAV, ed ENPA. Rimandando la decisione definitiva alla camera di consiglio del tribunale amministrativo, fissata per il 23 settembre. Ben tre giorni dopo l’apertura generale, con conseguente obbligo per i cacciatori, sino ad allora, di cacciare solo merlo e colombaccio . Ma oramai la legge non viene fatta rispettare nelle aule delle amministrazioni regionali, come intelligenza vorrebbe, ma solo in quelle di tribunale.
Riapre la caccia al voto, prima ancora che quella alla fauna braccata dai cacciatori
La costante instabilità politica del nostro paese e un livello di competizione che da tempo ha superato buonsenso e buon gusto, rende tutto misurabile in termini di consenso elettorale. Come dimostra il fatto che la legge nazionale, quella che regolamenta la materia sia vecchia di quasi trent’anni, salvo piccoli aggiustamenti imposti dall’Europa al nostro paese, cronicamente inadempiente. Lasciando alle Regioni molteplici possibilità di interpretazione, spesso se non quasi sempre sconfessate dai tribunali. Non su impugnativa del governo, come sarebbe giusto, ma delle associazioni protezionistiche e di tutela ambientale.
Su alcuni temi la politica diventa come il vento, impalpabile, e questo riguarda tutti i partiti che stanno in parlamento, anche se bisogna dar conto che Lega e Fratelli d’Italia sono quelli più legati al mondo venatorio e a quello agricolo (seguiti dal Partito Democratico, pur senza la stessa compattezza di fronte). Raccogliendo fra questi elettori una buona parte dei consensi. Dimostrando di essere anche gli schieramenti politici meno attenti alle questioni ambientali. Che non trovano comunque un’attenzione prioritaria, che non sia di facciata, neanche nelle altre formazioni politiche, che non hanno ancora capito che la salvezza della nostra specie passa dalla tutela ambientale.
Un’altra osservazione che deve essere fatta è che se questo appare essere il ritratto della politica, potrebbe essere lo specchio in cui si riflette molto del popolo italiano. Che se ritenesse primaria la tutela ambientale farebbe pressione sulla politica per farla muovere in questa direzione. Manca invece una visione olistica del problema “vita sul pianeta”, anche da parte di una vasta porzione dell’opinione pubblica, ed è sempre la carota dell’economia a far correre il cavallo piuttosto che quella della sostenibilità ambientale.
In tema ambientale, ma non solo, il nostro non è il Paese della buona amministrazione ma quello del compromesso
Abbiamo, come esempio attualissimo, appaltato alla sanità privata buona parte del benessere del cittadino, talvolta seguendo criteri che tutelano più la componente privatistica di quella pubblica. Con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. E abbiamo ritenuto i cacciatori lo strumento migliore per la gestione faunistica, non volendo nemmeno esaminare sotto il profilo scientifico decenni di fallimenti, errori, prepotenze e prevaricazioni. Come se le conoscenze scientifiche si fossero fermate ai primi del novecento, come se biologia ed etologia fossero ancora ai tempi di Cartesio.
Eppure agli inizi del secolo, quando le conoscenze erano molto embrionali e gli strumenti per procurarsele decisamente meno efficaci di quelli odierni, paradossalmente c’era una politica più attenta. I primi due parchi nazionali, Abruzzo e Gran Paradiso, risalgono a quasi un secolo fa. Quando l’emergenza ambientale non era nemmeno all’orizzonte. Oggi, in pieno dramma climatico planetario, riusciamo solo far progetti di breve periodo. Preoccupandoci non di garantire il futuro ma di fare un po’ di maquillage al presente.
Per questo fa inorridire che per un pugno di voti i politici possano autorizzare aperture anticipate della caccia, con una sfrontatezza che dovrebbe fa indignare tutti. Anche se questo non costituisce reato penale rappresenta, comunque, uno svilimento morale di chi amministra la cosa pubblica. Un comportamento davvero inaccettabile, come molte altre cose di questo tempo.
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