Proviamo a continuare il ragionamento proprio con i topi, sicuramente i meno difesi fra i mammiferi. Quelli costretti a subire i peggiori patimenti senza che nessuno abbia in fondo molto da ridire. Avvelenati con prodotti che provocano sofferenze lunghe e intense, lasciati morire di inedia sulle tavolette con il collante vendute in ogni garden, uccisi in trappole che assomigliano a strumenti di tortura medievali.
Eppure nonostante queste cose siano note non esiste una mobilitazione per difenderli, per farli morire almeno in un modo meno crudele. Eppure le loro caratteristiche fisiologiche non sono diverse da quelle di un cane o di un gatto: provano lo stesso dolore, vivono le stesse paure e identiche angosce. Ma non trovano ugualmente troppi difensori e non esistono azioni per cambiare il modo con il quale li eliminiamo. Quindi il punto non sono il dolore e la sofferenza, ma il soggetto che li deve subire. Questa eticamente è senza dubbio una grande ingiustizia.
Se la sensibilità umana divide uomini e animali per specie, forme e colori della pelle qualcosa va cambiato
La vita sul pianeta è fatta di prede e predatori e ogni specie animale, uomo escluso, ha tre scopi ben precisi da perseguire: sopravvivere, riprodursi e dare una speranza di vita alla prole. Non esistono altre esigenze che abbiano una priorità superiore a queste. Per gli esseri umani molte altre sono le variabili e la nostra intelligenza avrebbe dovuto farci sviluppare una maggior attenzione verso i diritti e la sofferenza, almeno nel corso dei millenni.
Invece la nostra storia è sempre stata fatta di opposti: incredibili crudeltà e grandi slanci emotivi. Azioni riprovevoli e altre, invece, meravigliose per altruismo e sacrificio. Nell’eterna lotta fra il bene e il male che ha sempre costituito la nostra esistenza. Quello che diventa difficile da comprendere è la sensibilità selettiva, quella che porta molte persone a essere compassionevoli, non in senso generale ma mirato.
Persone che si battono per la difesa di M49, l’orso braccato dai forestali trentini dopo l’evasione, e magari restano indifferenti di fronte alle sofferenze causate ad altri animali, specie quelli usati per l’alimentazione. Per non parlare delle migliaia di morti di nostri simili che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero. L’umanità probabilmente non diventerà interamente e velocemente vegana e certo non possiamo accogliere tutti, ma nemmeno abbiamo il diritto di restare spettatori indifferenti di fronte alla sofferenza.
Una è la salute, uno il pianeta e dobbiamo iniziare a ripensarci come un’unica comunità interdipendente (prima che sia tardi)
La pandemia sembra che non abbia convinto la maggioranza delle persone a vedere il mondo come fosse una cosa sola. Ancora pensiamo sia possibile dare una priorità agli interessi degli individui o di singole comunità, come se non ci fosse interdipendenza. Quasi pensassimo di essere in grado di poter fisicamente separare il mondo in comparti stagni. Continuando a sottrarre terreno vitale alla fauna selvatica, invadendo le foreste con gli allevamenti, trattando gli animali come fossero oggetti, prodotti. E seguitando a far finta di non vedere la sofferenza di un’umanità dolente.
Basta trasporto animali vivi, basta crudeltà solo in nome del profitto, basta dover chiudere gli occhi in autostrada per non vedere, sotto il caldo estivo, camion che attraversano l’Europa con un carico di sofferenza, inutile, che è solo un tributo al dio del profitto.
Basta anche considerare certe sofferenze come un male inevitabile perché così non è, senza bisogno di essere vegani ma solo con la necessità di essere umani. Se la nostra specie non la smetterà di guardare il mondo solo e esclusivamente con occhio rivolto al profitto presto si accorgerà di star davvero danzando sull’orlo di un cratere, al quale però sta per saltare il tappo.
Non esiste un solo motivo eticamente accettabile per giustificare le tradotte che scorrazzano per l’Europa con tutto il campionario degli animali destinati all’alimentazione umana: vitelli, vacche, manzi, pecore, maiali, senza dimenticare asini e cavalli.
Le organizzazioni internazionali di protezione degli animali si battono da anni contro questa vergogna, hanno lanciato, tempo fa, la campagna 8hours, con lo scopo di limitare i tempi di trasporto a non più di 8 ore. Per ottenerlo hanno raccolto più di un milione di firme che sono state, di fatto, ignorate dall’Europa.
La lobbie degli allevatori è ben più forte e muove più interessi di quella delle associazioni per i diritti, sia che siano umani sia che riguardino altri esseri senzienti come gli animali.
Il trasporto di animali crea enormi sofferenze
Molti uomini, per fortuna non tutti, hanno questa fantastica attitudine a separare il problema dalla conseguenza: lo fanno con gli immigrati dove il problema lo abbiamo creato noi, ma la conseguenza la vogliamo lasciare a loro, lo fanno con gli animali ai quali il problema lo creiamo noi, con la nostra ingordigia, ma poi ci spogliamo delle conseguenze, lasciandole patire a loro senza nemmeno cercare di alleviarle.
Siamo talmente impegnati nel difendere i nostri diritti da non avere tempo per cercare di capire anche quelli degli altri, bipedi o quadrupedi, che sono forse diversi da noi ma hanno un diritto che ci dovrebbe accomunare: non subire crudeltà.
Provo a dare corpo a un pensiero, provo a dare voce a uno dei forzati dei trasporti, provo a dare concretezza a quello che potrebbe pensare un maiale su un camion che lo trasporta sotto il sole.
“Fatica, grande fatica a stare in piedi su questo piano scivoloso della cosa rumorosa e ondeggiante che non è mai ferma. E’ da quando mi han caricato che ho la paura che mi scorre nelle vene al posto del sangue, non capisco cosa stia succedendo e forse per questo mi sembra di impazzire. E poi fa caldo, troppo caldo, una temperatura impossibile che tutti noi -questa moltitudine che ondeggia, calpesta, si sposta, grugnisce quasi come imprecasse- sopporta a fatica.
Nulla è più intenso della paura, tanto da poterne sentire l’odore
Come la sete perché con questo caldo, con questa paura che ci pervade, tutto accelera, tutto il fisico brucia risorse e la sete morde, è terribile, non ti da pace. Con il terrore negli occhi è difficile poter ragionare, è difficile potersi spiegare cosa succede. Anche se noi non conosciamo il tempo ricordo che è stato il buio della notte che ci ha visto salire su questa cosa e ora il sole è caldissimo e alto.
Non so cosa sarà, non so dove andrò ma ora, dopo una vita disgraziata, vorrei pensare di potermi fermare, anche per sempre, di arrestare i miei pensieri, di trovare pace.”
Il racconto potrebbe durare ancora molto ma credo che poche righe bastino a trasmettere la sofferenza, a far capire, anche soltanto tratteggiandola per l’immaginazione, cosa possa provare un animale che viaggia su un camion, verso un destino a lui ignoto. L’unica cosa che lo differenzia dai poveretti che attraversano deserti e mari per sfuggire a guerre e stenti è l’assenza della speranza.
Quella speranza che nelle prove più terribili aiuta l’uomo a vivere pensando al suo domani e a quello dei suoi cari, quella speranza che non credo risieda nelle possibilità degli animali.
Se guardassimo umani e animali con occhi diversi e con maggior empatia capiremmo come nessuno di noi vorrebbe mai dover affrontare certe prove e, per questo, dovremmo impedire di somministrarle agli altri, spacciandole come una necessità.
Senza entrare nelle scelte individuali dobbiamo smettere di non considerare la sofferenza oppure di considerarla come un fatto ineluttabile. I trasporti di animali vivi non sono una necessità, sono una crudeltà inutile e se allevamento ci deve essere che sia fatto con una regola ferrea e inderogabile: la tutela da ogni sofferenza motivata dal profitto.
Per questo devono smettere di viaggiare gli animali, che potrebbero essere abbattuti dove sono allevati e il trasporto potrebbe riguardare solo le carni. La soluzione, prima di arrivare a un modo vegano, realtà possibile ma lontanissima, è quella dei macelli di prossimità: basta con i viaggi, basta con l’aggiunta di sofferenza a sofferenza.
Se non siete convinti provate a rileggere il pensiero del maiale -certo avrebbe meritato una miglior prosa- e spero possa essere sufficiente a trasmettervi la sua angoscia di essere vivente.
L’uomo in fondo ha bisogno di negare quanto gli fa orrore, ha necessità di credere che la sua specie non sia portatrice del gene della crudeltà per non dover fare i conti con le nostre peggiori pulsioni. In fondo è vero che noi, gli animali umani, arriviamo a fine scala sia nel bene che nel male: abbiamo veri eroi, santi e uomini ordinariamente corretti, indisponibili a piegarsi alla logica del potere e, purtroppo, anche uomini abbietti, violenti, amorali, incapaci di empatia, sfruttatori, pedofili e violentatori, soltanto per usare alcune categorie. (altro…)
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