Abbattimento lupi al via in Trentino Alto Adige, già partita la richiesta di parere a ISPRA. Le due province autonome ritornano all’attacco di lupi e orsi, che in caso creino problemi alla popolazione, potranno essere uccisi. Almeno secondo i piani delle due amministrazioni, forti di un’autonomia che su alcuni temi dovrebbe essere rivista. Una strada non nuova quella che cercano di attuare le due amministrazioni, che era stata già tentata nel 2018.
Trento e Bolzano invocano le misure previste dalla Direttiva Habitat, che prevede l’abbattimento di singoli animali “problematici”, qualora non sussistano alternative valide. Come la rimozione che è stata attuata per imprigionare gli orsi a Casteller. Su questo argomento le due amministrazioni, che si sostengono a vicenda su questi temi, suonano come un disco rotto. Riproponendo sempre la stessa musica, senza varianti.
Inutile ripercorrere le tappe delle precedenti decisioni o il dramma della cattività infame degli orsi a Casteller. Non sembrano possibili spiragli di ragionamento, aperture a una diversa modalità di gestione. Da questa strada, tracciata da tempo, le amministrazioni non si spostano, ampiamente sostenute da cacciatori e agricoltori. A costo di essere condannate, osteggiate e di finire sui giornali di mezzo mondo. Granitiche, immobili e sorde.
Abbattimento lupi al via in Trentino Alto Adige: l’ennesima provocazione o la sensazione che si sia aperta una breccia?
Difficile non pensare alle motivazioni temporali di questa decisione, illustrata nei dettagli in un comunicato stampa congiunto che il giornale L’Adige ha ripreso senza troppe modifiche. Le nuove linee guida sulla gestione dei grandi carnivori, pensate e approvate d’intesa fra Trento e Bolzano, probabilmente erano già pronte? Tenute in un cassetto in attesa che mutassero le condizioni politiche? Non lo si può dire con certezza, ma è certo che il ministro Costa non abbia nemmeno fatto a tempo a chiudere la porta, a causa dell’avvicendamento del governo, che già le richieste di parere a ISPRA sul piano di gestione erano pronte per essere inoltrate.
Eppure si continua a sostenere che devono essere riviste le politiche di gestione della fauna, il nostro rapporto con il mondo selvatico. Rimodulando completamente il modo di fare agricoltura, allevamento e l’utilizzo degli ambienti naturali, secondo un principio di condivisione, ben diverso da quello di occupazione. Ma siamo sicuri che la politica abbia davvero compreso il messaggio che gli ha trasmesso la scienza? Che davvero voglia attuare scelte diverse dal passato, più rispettose e compatibili?
La risposta, nel migliore dei casi, è incerta ma questa attesa sicuramente preoccupa. In un paese che ha scelto, con un colpo di spugna, di cancellare il Ministero dell’Ambiente. Apparentemente per avere la possibilità di fare di più e meglio, unendo gli sforzi in un’unica direzione con il Ministero per la Transizione Ecologica. Un ministero monstre che accorpa molte competenze, dando potere di indirizzo a un manager con grandi capacità sul fronte tecnologico, ma con scarse conoscenze su quello ambientale. Con particolare riferimento alla tutela dell’ambiente non solo sotto il profilo del cambiamento climatico, ma anche della difesa della biodiversità e della tutela degli animali.
La squadra che all’Ambiente aveva lavorato con il ministro Costa è stata (pare) integralmente cambiata
Una scelta che va chiaramente in una direzione di discontinuità, tanto che risulterebbe che ai vertici dei settori siano stati rimessi gli uomini del ministro precedente: Gian Luca Galletti. Un nome la cui rievocazione fa accapponare ancora la pelle a chi si occupa da tempo di ambiente e di diritti degli animali. Un politico giudicato da moltissimi come il peggior ministro dell’Ambiente dalla data della sua istituzione, nel lontano 1986.Un giudizio soggettivo, ma motivato da una serie di posizioni, come quella di consentire il nuoto con i delfini nei delfinari.
Se l’ipotesi che le scelte fatte dal Trentino Alto Adige fossero motivate da questo cambiamento di passo ci sarebbe molto di cui preoccuparsi. Questa certezza forse non l’avremo mai, ma il fatto che questo nuovo ministero non convinca molti è di dominio pubblico. Saremo ovviamente tutti pronti a ricrederci quando sentiremo il ministro Roberto Cingolani prendere posizioni nette anche su questi argomenti, ma per il momento restano molte perplessità.
Il momento è importante e le scelte fatte ora andranno a impattare in modo molto forte sul futuro del nostro paese, che già è in una situazione di grosso stress ambientale. Se è vero infatti che abbiamo molte aree protette è altrettanto vero che la nostra gestione del capitale naturale non può essere un grande esempio di lungimiranza. Avendo sempre scelto di abdicare alla tutela dell’ambiente rispetto a scelte più vantaggiose, seppur molto miopi, per l’economia e la finanza. La vicenda dell’ILVA di Taranto, solo per fare un esempio, avrebbe dovuto insegnarci da tempo qualcosa.
I corridoi faunistici sono indispensabili per garantire agli animali di spostarsi in sicurezza, senza rischiare di essere investiti. Nel contempo garantiscono di evitare incidenti durante la circolazione stradale, diminuendo drasticamente gli incidenti causati dalla fauna sulle strade. Che rappresentano per gli animali barriere insormontabili. Dividendo i territori per decine e anche per centinaia di chilometri. Impedendo di fatto il libero vagare e la dispersione degli animali.
Un problema che in altri paesi è stato affrontato, ma anche spesso risolto, con un costo davvero irrisorio se paragonato a quello causato dagli incidenti. La mancanza di attraversamenti sicuri infatti è la principale causa di impatto con i veicoli. Con tutto il corollario di costi, in termini economici e di vite, che questi eventi causano. Senza dimenticare il grande danno in termine di biodiversità. In Italia si potrebbe dire che si è studiato molto, ma si è fatto ancora troppo poco. Questa purtroppo è una peculiarità del nostro paese che ha sempre investito troppo poco sui temi ambientali.
Nel 2008 ISPRA ha pubblicato un lungo studio sull’importanza di creare corridoi che consentano il libero vagare della fauna. Sono più 300 pagine ricche di dati, non ultimi anche se datati, quelli relativi al numero di incidenti. Indicati per difetto in quanto riguardano gli animali di grossa taglia. Quest’estate in Abruzzo un orsa con i cuccioli, solo per fare un esempio, si è infilata in una galleria stradale, non riuscendo a trovare un’uscita “naturale”.
Lo studio sui corridoi faunistici e la loro importanza è stato applicato poche volte in Italia
La realizzazione di questi corridoi dovrebbe essere ritenuta una priorità su ogni nuova infrastruttura messa in cantiere. Mentre, anche nell’ottica della creazione di nuovi posti di lavoro, risparmio in termini economici e di vite, bisognerebbe ammodernare senza ritardo l’esistente. Per evitare che gli animali restino imprigionati fra arterie stradali e ferroviarie, creando in questo modo anche conflitti con le comunità locali. Se gli animali non riescono a andare in dispersione rischiano di crescere numericamente, dovendo così dividersi territori e risorse limitate.
La dispersione degli animali sui territori è un fattore molto importante per la conservazione di una specie. Sia sotto il profilo della variabilità genetica che per evitare un’inutile perdita di biodiversità. Causata da un elevato numero di morti traumatiche. Strade, autostrade e ferrovia diventano fattori non solo limitanti ma rappresentano, secondo lo studio condotto da ISPRA, un problema serio che andrebbe affrontato e risolto.
Gli studi esistono ma è prioritario applicarli
Gli studi sulla mortalità stradale di fauna selvatica (“road mortality”) condotti in tutti i continenti hanno prodotto risultati allarmanti, mostrando perdite elevate per molte specie. In Europa vengono stimati dai 10 ai 100 milioni tra uccelli e mammiferi travolti ogni anno sulle strade. Secondo una nuova procedura di calcolo elaborata in Svezia, per ogni 10.000 km percorsi da un veicolo si produrrebbe l’uccisione di un uccello. Per un anfibio la probabilità di restare ucciso su una strada con un flusso di 500 veicoli/ora è del 18% e per un micromammifero del 10%. La mortalità stradale incide sull‟1-4% delle popolazioni di specie comuni, ma può arrivare al 40% nelle specie più sensibili. In ciascuna provincia italiana si stimano oltre 15.000 animali travolti ogni anno, e la tendenza generale va verso l’aumento, alla luce dell’espansione della rete stradale e dell’incremento dei volumi di traffico.
Tratto dallo studio “Tutela della connettività ecologica del territorio e infrastrutture lineari” di ISPRA
La frammentazione del territorio crea delle isole, dalle quali gli animali possono uscire solo con grandi difficoltà
Le specie selvatiche ovviamente non sono in grado di capire i confini artificiali rappresentati dai tracciati viari. Strade, autostrade, ferrovie ma anche i canali artificiali per loro rappresentano solo barriere. Che devono essere aggirate o attraversate. Per un animale infatti l’obiettivo è quello di raggiungere nuovi territori che significano disponibilità alimentari. Ma anche luoghi che offrono possibilità di stabilirsi e riprodursi. Un fatto che può diventare un miraggio, a causa del reticolo di infrastrutture che il più delle volte rendono molto difficile il passaggio.
Le strade extraurbane sono costellate di cadaveri di animali: dalla microfauna come i rospi, che vengono schiacciati a migliaia nel periodo degli amori, alle specie più grandi. Come ricci, volpi, tassi per arrivare a cinghiali, lupi, cervi e anche orsi, Ma solo gli animali di grandi dimensioni, se investiti, entrano nelle statistiche. Considerando che le collisioni provocano danni materiali e spesso feriti.
Le morti dei piccoli animali non vengono rilevate, mentre diventano un richiamo alimentare per altre specie. Che a loro volta rischiano di rimanere uccise dai veicoli, specie nelle ore notturne. I cadaveri raramente vengono rimossi dal manto stradale con rapidità e possono restare sulle strade per giorni. Animali che rischiano di diventare pericolose esche per altri e che non saranno mai presenti nei censimenti. Pur rappresentando la stragrande maggioranza delle morti per collisione.
Una delle priorità per limitare la perdita di biodiversità causata da motivazione antropiche è quella quindi di mettere in sicurezza le infrastrutture. Un tema che dovrebbe stare a cuore sia chi si occupa di sicurezza della circolazione, sia a quanti tutelano il nostro capitale naturale.
La gabbia dell’orso M49 o meglio una delle recinzioni del sito che lo ha ospitato sembra essere davvero mal realizzata. Tanto da consentire all’orso di fuggire aprendosi un vaco, danneggiando la struttura in più punti. Una recinzione realizzata con reti elettrosaldate, le stesse che sono impiegate per essere annegate nelle gittate di calcestruzzo in edilizia.
Queste reti sono fatte con tondini di ferro, che arrugginiscono come dimostrano le foto, e possono dissaldarsi perché non nascono per essere utilizzate come barriere. Ma solo per rinforzare il calcestruzzo in edilizia. Quindi M49 potrebbe aver avuto buon gioco, certo non in un solo giorno, per creare il varco da cui è scappato. Però nessuno sembra aver controllato.
La struttura della recinzione è composta da un cordolo di calcestruzzo nel quale sono inseriti i pali verticali di sostegno, ai quali sono imbullonati i tondini che formano la rete di recinzione. I tondini non sono affogati nel calcestruzzo, caratteristica questa che presumibilmente ha contribuito a rendere meno difficoltosa la rottura della rete. Pur considerando la mole dell’animale (peso superiore a 200 kg), la forza e la determinazione mostrate dal soggetto visionando il punto di rottura appaiono fuori dal comune.
Tutta la gestione degli orsi fatta in Trentino è sempre oggetto di polemiche e dubbi, per scarsa trasparenza
Non basteranno le dimissioni del responsabile della Forestale provinciale per mettere il coperchio a questa brutta questione. Che non si può escludere si possa concludere anche con la morte di M49, per le ferite che si può essere provocato a causa della fuga da una struttura inadeguata. Che andrebbe posta sotto sequestro per consentire indagini approfondite sul fronte del maltrattamento di animali, ma non soltanto.
Un’altro fronte che meriterebbe di essere indagato è l’aspetto economico che lega il centro di Casteller alla provincia di Trento. Se ci fosse un trasferimento di risorse economiche per la custodia degli animali, come probabile, sarebbe opportuno comprendere chi abbia autorizzato il centro e chi abbia valutato lo stato delle strutture. Un brutto pasticcio sul quale il ministro Sergio Costa dovrebbe fare subito chiarezza, chiedendo l’intervento di chi potrebbe indagare davvero.
Metti un cinghiale nell’urna: perché la caccia vale oro per i politici? La domanda potrebbe sembrare banale, ma non è affatto così. I cacciatori sono più appetibili degli ambientalisti e certamente degli animalisti, per il politico. Una semplice ragione di calcolo, di risultato, di platea. Un dato che talvolta significa elezione sicura, al di là dei meriti, della preparazione e troppo spesso anche della cultura dei protagonisti.
Un ragionamento al quale sarebbe opportuno non sottrarsi, per evitare che la sottovalutazione dell’avversario porti a sonore sconfitte. Come successo alle ultime europee dove in Italia i verdi non sono nemmeno riusciti a superare la soglia di sbarramento, ma i candidati filo caccia inseriti nelle liste dei partiti sono arrivati a Bruxelles. Un caso? Direi proprio di no, al massimo l’unione di due fattori determinanti: il mondo economico che gravita intorno a quello venatorio e la qualità di quello venatorio, che ruota intorno al politico.
Recentemente ha creato scalpore un post di Barbara Mazzali, consigliere lombardo di Fratelli d’Italia che ha difeso una sua omologa del Veneto, la quale aveva proposto di far diventare la caccia una materia di studio, proprio per la sua interdisciplinarietà. Si potrebbe sorridere, ma prima di farlo occorre riflettere: forse chi sorride è di quella parte che non è riuscita a far eleggere un proprio rappresentante. La proposta della politica certo è irricevibile, ma poco importa perché serve a consolidare i rapporti con i suoi elettori.
Secondo ISPRA i cinghiali sono diventati un milione e fra le cause anche le oasi di protezione
Anche questa dichiarazione di Piero Genovesi potrebbe far sorridere, certo il titolo la estrapola dal contesto, eppure il senso di quello che afferma il dirigente di ISPRA è un poco surreale, ma lo si può sentire integralmente nel video. Il giudizio si basa sul fatto che chi lo afferma è il massimo rappresentante di ISPRA in questo settore. Da un tempo immemore, con luci e ombre e certo con posizioni che non si possono dichiarare né vincenti, né convincenti in materia di gestione faunistica, basando il giudizio non sulle opinioni ma sui risultati. Dovuti, nel caso dei cinghiali, a troppi anni di abbattimenti scriteriati.
I vertici dell’ISPRA sono gli stessi da molto tempo e Genovesi ha sempre detto e ritenuto che il prelievo venatorio sia una delle modalità per gestire il problema. Non solo dei cinghiali ma di tutti gli animali giudicati in esubero. Considerando però da quanto tempo questa sia la linea e mettendola in rapporto con i risultati occorrerebbe farsi delle riflessioni: siamo così certi che questa gestione faunistica sia vincente? Oppure forse sarebbe il temo di chiedere al ministro Sergio Costa se non sia arrivato il momento di un avvicendamento dei vertici e di un cambio delle politiche. Del resto dopo decenni di monopolio e di mancati risultati il tentativo non pare più rischioso dello status quo.
La caccia salda sempre i suoi debiti con i politici, che non si dimenticano mai di chi li vota
Tornando alla nostra consigliera di Fratelli d’Italia, Barbara Mazzali, vi sono pochi dubbi che lei sia uno dei punti di riferimento lombardi della componente più retrograda del mondo venatorio. Quella che esercita la caccia da capanno e che vorrebbe poter ancora catturare gli uccelli con i roccoli. Sarà per questo che la consiglierà trasmette passione e partecipazione attraverso la sua pagina Facebook, dimenticando di avvisare i suoi sostenitori che la partita dei roccoli si è chiusa per sempre.
Resta sempre una considerazione: ambientalismo e animalismo non riescono a essere premiati dalle urne. I Verdi non decollano, i partiti animalisti non vanno più in là di decimali, nonostante la sensibilità delle persone. Forse sarebbe tempo per un autocritica anche da questa parte del campo, perché non vi è dubbio che il problema sia anche di proposta: pochi programmi, troppe divisioni, troppa emotività e poca sostanza? Difficile ora poter dare una risposta, però il risultato non è certo di conforto e l’orizzonte non pare davvero verde e rasserenante.
Una fucilata accomuna il lupo alla nutria: è questo, infatti, uno dei possibili destini per gli individui di entrambe le specie che seppur così diverse si trovano unite nell’odio di alcuni a causa di supposti danni arrecati all’uomo.
Il predatore per i suoi attacchi (molto sporadici) al bestiame, la nutria per i molti danni (spesso supposti) all’agricoltura.
Così un carnivoro e un erbivoro, un predatore e una preda, possono essere presi come icone dimostrative dei comportamenti irresponsabili che gli uomini hanno nei loro confronti, talvolta anche con la complicità delle istituzioni, delle amministrazioni pubbliche e di certa scienza. Sempre al centro di questioni legate al mondo della caccia, che vede i primi come competitors e le seconde come bersagli ma anche come fonte di profitto.
Così una fucilata accomuna il lupo alla nutria, unisce due destini diversi e due tutele diverse: una specie particolarmente protetta il lupo, un animale alloctono da eradicare la nutria. Bracconato il primo, oggetto di uno sterminio non riuscito la seconda. In nome di una scienza che promette ma non mantiene, che racconta talvolta bugie. Sempre basate sul fucile come unica soluzione a ogni problema.
Sicuramente qualcuno leggendo il titolo avrà storto il naso pensando alla solita esagerazione ma in realtà il concetto espresso è la dimostrazione di quanto la razza umana sia presuntuosa: non abbiamo ancora capito come dirimere le questioni che riguardano la nostra specie, creando conflitti con centinaia di migliaia di vittime, ma siamo così arroganti da pensare di poter essere noi a regolare la natura e a gestire gli equilibri di un mondo del quale non conosciamo ancora a fondo i meccanismi. Troppo spesso se non quasi sempre facendo danni, molte volte irreparabili.
I lupi sono stati portati sull’orlo dell’estinzione ai primi dei ‘900 e in Italia era sopravvissuto solo un piccolo indomito nucleo confinato sui monti della Sila e in qualche altra zona dell’Appennino, dove è rimasto circoscritto sino a quando le condizioni ambientali sono mutate, le prede sono aumentate e le campagne si sono svuotate. Così alcuni esemplari hanno risalito la dorsale appenninica per arrivare fra Emilia e Piemonte alla metà degli anni’80, piccoli avamposti di una popolazione in espansione.
Le nutrie invece arrivano da molto lontano, dal Sud America e sono state portate nel vecchio continente per essere usate negli allevamenti da pelliccia nei momenti del boom economico, quando tutte le signore dovevano avere una pelliccia: le più benestanti di leopardo, la media borghesia di visone e castoro mentre le fasce più basse, economicamente, ripiegavano sul castorino ovvero la nutria. Un nome pomposo che ricordava il più ambito castoro. Poi con la crisi della fine degli anni ’80 molti allevamenti chiusero e molte nutrie, in varie parti d’Europa si ritrovarono libere.
Lupi e nutrie approfittarono entrambi delle condizioni ambientali favorevoli e si diffusero sul territorio: i primi riprendendosi i loro spazi le seconde, le immigrate, colonizzandone di nuovi grazie a condizioni climatiche simili, pochi predatori naturali anche grazie al fatto che questi sono sempre stati sterminati dai cacciatori (leggi qui) in quanto antagonisti di lepri e fagiani. Per questo una fucilata accomuna il lupo alla nutria.
Ovviamente la proporzione fra prede e predatori è sempre nettamente a favore delle prede, che devono essere numericamente superiori ai predatori per essere la loro fonte di cibo. Così, grazie a errori umani dissennati, per le nutrie, oppure a scelte altrettanto dissennate fatte per ragioni venatorie riguardo a cinghiali, cervi e caprioli, gli ungulati e le nutrie hanno preso il sopravvento. Grazie all’assenza dei predatori, sterminati dai cacciatori o ridotti a un gruppo sparuto come i lupi.
I cacciatori hanno approfittato dei danni che questi incrementi di popolazione potevano creare, dimentichi di esserne responsabili con ripopolamenti senza criterio, per ergersi come regolatori delle dinamiche di popolazione. Così prede, ma anche predatori (leggi qui) hanno avuto vita dura con una caccia perpetua che doveva contenere le specie. Senza riuscirci, raccontando bugie, con l’aiuto talvolta di enti pubblici, come ISPRA (leggi qui), che invece di obbligarli a usare metodi etologici, come dice la norma, troppe volte hanno agevolato gli abbattimenti. Apparentemente nel pieno rispetto della legge, ma si sa che l’apparenza spesso inganna.
Ora, per fare un esempio, la regione Lombardia vuole stanziare qualche milione di euro per arrivare all’eradicazione della nutria (termine che significa completa sparizione di una specie da un ecosistema) a causa dei danni (supposti e/o rimediabili) che provoca all’agricoltura. Dimenticando che prima degli abbattimenti esistono più di una decina di metodi ecologici per mitigare l’impatto e ridurne la popolazione, che per legge hanno la precedenza. Invece prevale sempre la fucilata, che non risolve ma crea clientele unendo il mondo agricolo con quello venatorio.
L’eradicazione delle nutrie è impossibile oramai, lo dicono i numeri, le dinamiche di popolazione, gli studi scientifici e l’esperienza. L’unica eradicazione possibile e certa è quella dei soldi dei contribuenti, dirottati anche dalla prevenzione del randagismo, per mettere in atto piani inutili, che serviranno solo a rinsaldare clientele politiche a scapito di animali e cittadini. Che poco sanno di questi argomenti e troppo spesso credono alle sparate dei nostri politici e di certa scienza.
Così ben si capisce il perché una fucilata accomuna il lupo alla nutria. Fino a quando l’opinione pubblica non capirà che la realtà è diversa da quella che raccontano e che nessuno può parlare di abbattimenti operati in zona continentale che abbiano ottenuto la scomparsa della specie bersaglio. Con buona pace di istituzioni, università e certa scienza.
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