Questo romanzo alterna momenti intimi, che coincidono con emozioni autobiografiche vissute dall’autrice, a riflessioni sul nostro rapporto con i cani. Che vogliono sottolineare che quando parliamo di cani non dobbiamo considerarli come una categoria, ma come una comunità di individui, proprio come accade per la nostra specie. La capacità di volerli vedere per come sono, per le loro diverse abilità e per un modo di socializzare sempre soggettivo, individuale, proprio come quello degli umani, aiuta a riflettere e a mutare il nostro angolo di visione.
Come accade nei romanzi anche “L’abbandono” tesse una storia, che nel suo svolgersi ci porta a comprendere come la sofferenza del distacco, ma anche la rinascita, facciano parte delle nostre vite. Ma anche di quelle degli animali, che noi umani spesso riusciamo solo a intravedere senza davvero voler entrare nel sentire degli altri viventi. Probabilmente per la paura di riconoscerli come esseri troppo vicini a noi per poterli considerare così poco. Ma lascio il racconto ai lettori, senza anticipazioni.
“L’abbandono” di Diana Letizia tocca temi scomodi, come la “sindrome di Noè” che colpisce molti animalisti
Il nostro rapporto con gli animali non è sempre frutto di intelligente aiuto, ma spesso si basa sulla soddisfazione dei nostri bisogni, che quasi mai coincidono, quando compulsivi, con quelli degli animali. Una verità scomoda della quale parliamo in pochi, ma pur sempre una realtà che genera sofferenza e privazioni, che non sono lenite dalle buone intenzioni. Scelte che portano i cani a finire nei canili senza avere la possibilità di trovare una via di uscita, prigionieri di un labirinto in cui non solo il denaro ma anche un amore senza riflessione li ha rinchiusi.
L’ambientazione di questo libro ha le luci calde del nord Africa, i ritmi del Marocco e una localizzazione a Taghazout. Una località della costa, probabilmente sconosciuta ai più, almeno fino all’aprile del 2018, quando il Marocco, candidato per essere sede dei mondiali di calcio, decide di fare pulizia. Non solo dei paesi, in vista dell’arrivo della delegazione della FIFA che dovrà valutare la candidatura, ma anche e soprattutto dei cani. Così una località dove la convivenza era norma si trasforma in un’arena senza toreri, ma con uomini e ragazzi armati che fanno strage di randagi.
Il racconto rende palpabile la gravità della strage, con garbo e attenzione, per far comprendere senza sconvolgere. Per consentire anche ai lettori più sensibili di capire, di entrare in una delle tante, nefaste, pagine della storia comune di uomini e cani. Rotto il patto di convivenza scatta la volontà di raccogliere dalle strade più cani possibili, ma questa scelta porta ad amassarli in modo insensato, così da avere, forse, salva la vita ma non dignità e benessere. L’esemplificazione tangibile della “sindrome di Noè”, ben conosciuta da chi si occupa di animal hoarding.
Bontà e malvagità spesso partono da punti diversi dell’orizzonte umano ma possono fondersi nelle conseguenze delle azioni
Se qualcuno pensa che il titolo del libro sia il preludio di un racconto basato sull’abbandono degli animali dovrà ricredersi. In fondo in questo romanzo siamo tutti accomunati e raccolti nelle sofferenze causate dall’essere stati, almeno una volta nella vita, abbandonati, feriti. Lacerazioni che talvolta spezzano l’anima o piccole bruciature che continueranno a farsi sentire anche quando sembrano guarite. Un viaggio, breve ma intenso, che attraversa le nostre vite di esseri umani ma non solo quelle.
Diana Letizia è una giornalista con una lunga storia di redazioni alle spalle e ora è il direttore di Kodami, periodico digitale che tratta temi legati agli animali e all’ambiente, con ottime performance in tempi in cui molti parlano ma pochi leggono. Il romanzo, per scelta dell’autore e della casa editrice, destina i proventi alle associazioni di tutela degli animali che operano in modo intelligente e consapevole sul territorio.
Round Robin Editore – brossura – 291 pagine – 16,00 Euro
L’incremento del numero di riproduttori, abbinato a una buona disponibilità di risorse alimentari che abbassa la mortalità, porta a un inevitabile aumento dei randagi. Quando questo accade, aumentando il numero di cani e gatti liberi sul territorio, di pari passo sale anche l’intolleranza di molti cittadini. Portando non soltanto a catture ma anche a spregevoli azioni contro i randagi. Azioni, anche illegali, che non risolvono il problema, ma che complicano non poco la vita degli animali di strada. Incolpevoli vittime di comportamenti umani irresponsabili.
Su questa problematica si sono create diverse visioni fra quanti si occupano di randagi. C’è chi dice che occorre convivere con le popolazioni di animali liberi, non accettando la loro sterilizzazione, chi vorrebbe metterli tutti al sicuro in strutture di custodia o in famiglie e chi, come il sottoscritto, ritiene la sterilizzazione un’azione necessaria, molto più utile della loro reclusione nelle strutture. Intorno al problema randagismo convivono, con grandi differenze operative e di visione, enti pubblici e singoli, volontari di associazioni e gestori privati di canili, veterinari del servizio pubblico e liberi professionisti. Creando una complesità di rapporti e sinergie operative tutt’altro che efficaci, se non in pochissimi e virtuosi casi.
Sterilizzare i randagi non basta, occorrono azioni di riduzione del commercio e lavorare per un cambiamento culturale
Il randagismo è un fenomeno complesso che si alimenta in diversi modi. L’esemplificazione più semplice è quella di paragonarlo un grande fiume, che non potrebbe essere tale se non avesse diversi affluenti. Immaginiamo la popolazione degli animali randagi, quelli che riescono a vivere la loro vita in autonomia senza aspettare aiuti umani, come se fosse il corso principale del fiume randagismo. La cui portata viene costantemente alimentata grazie al vagantismo degli animali padronali e semi padronali, lasciati liberi di girare sul territorio, ai randagi assistiti ma non sterilizzati, uniti agli abbandoni di soggetti adulti e di cucciolate indesiderate. Il gran numero di animali, fertili e riproduttivi, presenti sul territorio continua a produrre cucciolate e a ingrossare il fiume sempre più.
Spesso quando diciamo randagi il pensiero corre ai cani ma, a questo popolo di animali domestici senza casa, appartengono a buon titolo anche i gatti. Che ripercorrono con identiche motivazioni le strade che originano il fenomeno del randagismo canino, con uguali dinamiche di popolazione. La sola differenza sta nel dar vita a comunità meno problematiche e appariscenti: per taglia, comportamento e abitudini. Creando quindi qualche conflitto in meno, ma arrivando comunque, senza controllo riproduttivo, a una notevole possibilità di crescita sul territorio. Per questo in tutto il mondo sono operativi programmi di cattura, sterilizzazione e rilascio (TNR – Trap – Neuter – Release) che per essere utili devono raggiungere una parte importante della popolazione di randagi.
Ritornando al parallelismo fra fiume e randagismo possiamo dire che senza gli affluenti, che continuano a portare nuova linfa vitale al fiume, in Italia il fenomeno del randagismo canino e felino si sarebbe grandemente e drasticamente ridotto. Ovviamente questa considerazione va modulata considerano il paese, l’antropizzazione e le contromisure attuate per contenere le problematiche, anche di natura sanitaria, del randagismo. Non si possono mettere a confronto paesi diversi, come ad esempio l’Europa e l’India o l’Italia e il Marocco per fare delle valutazioni complessive.Quello che è certo è che ovunque il numero dei randagi non è mai diminuito a seguito di catture, deportazioni e uccisioni.
I canili non risolvono il randagismo, cani e gatti liberi sul territorio devono essere la transizione verso un paese più civile
Per arrivare a una corretta gestione del randagismo occore compiere una profonda invesione di rotta, a cui devono contribuire tutte le componenti coinvolte, nessuna esclusa. Affrontando e guardando il problema con un occhio laico, che metta in fila non solo i soggetti coinvolti ma anche i tasti, e sono molti, che vanno toccati. Rispetto delle regole di convivenza, responsabilità nei confronti della collettività, preparazione, educazione e cooperazione. Questi potrebbero essere i cinque pilastri su cui fondare la costruzione del cambiamento. Consapevoli del fatto che se i randagi possono costituire (talvolta) un problema, cause e responsabilità della loro presenza sono solo umane.
Partiamo dal problema fondamentale, legato al rispetto delle regole. il Mahatma Gandhi sosteneva che la civiltà di un popolo sia misurabile da come vengono trattati gli animali. Io aggiungerei anche da come vengano gestiti i rifiuti. Sono sempre loro, infatti, i protagonisti dell’alterazioner dei nostri rapporti con gli animali, domestici o selvatici. Il cibo è uno strumento potente di condizionamento, di abituazione ma anche di sostentamento. I rifiuti per un animale rappresentano una fonte proteica low cost, ai quali accedono tutte le specie, dai lupi ai cani, dagli orsi ai gatti, per arrivare a ratti, cinghiali e cornacchie. Una certezza alimentare che li avvicina, con conseguenze indesiderate, ai nostri mondi.
Se ci fosse molta attenzione nella gestione dei rifiuti, rendendolo inavvicinabili per gli animali, i tanto temuti incontri pericolosi con i predatori sarebbero azzerati o quasi. Diminuirebbe anche la presenza di specie che consideriamo infestanti, come le cornacchie, e scenderebbe drasticamente anche quella di cani e gatti randagi. Questo punto attiene al rispetto delle regole da parte dei cittadini e all’intelligente lungimiranza, non così frequente, degli amministratori. I rifiuti attirano gli animali nei contesti urbani, vicino alle abitazioni, sui bordi delle strade e in mille altri luoghi. Generando inutili conflitti che potrebbero essere facilmente evitati, se solo lo si volesse veramente.
La sanità pubblica deve smettere di voltarsi dall’altra parte e i volontari devono essere preparati
La responsabilità nei confronti della collettività impone al legislatore e al servizio pubblico di mantenere quel che promette e di avere visione di periodo. Inutile ripetere da più di mezzo secolo il mantra che. per combattere il randagismo, mancano le risorse. Affermiamo invece che una politica miope non fa bene i conti e non mette risorse dove servirebbero, dimenticando di fare i conti di quanto costi, in termini economici alla collettività, questa scelta. Così le sterilizzazioni restano spesso un dovere scritto ma non agito, le assenze dei Servizi Veterinari pubblici contribuiscono a ingrassare i privati che gestiscono le strutture, e manca un piano di periodo che esuli dalla pura gestione sanitaria del problema, che spesso risult approssimativa quando si parla di animali.
Molte norme sono ferme alla metà del secolo scorso e quelle che le hanno innovate, come la legge 281/91, hanno affermato principi sacrosanti, senza concretizzarli tutti. Ancora una volta viene identificato il canile o il rifugio come strumento di risoluzione, ma in realtà in molti casi si tratta di intombare gli animali, proprio come si è fatto spesso con i rifiuti pericolosi. Buttati in luoghi inacessibili, per togliere di mezzo i primi e per levare dalle dalle strade i secondi. Spesso grazie a figure criminali che nei decenni hanno tratto enormi profitti da entrambe le attività. Grazie a strutture di reclusione per animali dove i termini benessere e etologia restano sepolti sotto appalti senza controllo.
Per contro anche i volontari devono fare la loro parte, cercando di essere protagonisti preparati del cambiamento, e non soltanto comparse emotive che seguono l’istinto. Senza essere in grado di fare scelte, di confrontarsi con la politica, di conoscere il settore dove hanno deciso di impegnarsi. Difendono una categoria che non può protestare, ma a maggior ragione devono essere interpreti delle reali esigenze. Smettendo di pensare che la salvezza dei randagi sia nei box dei canili. Per fortuna (dei randagi) non sono tutti così e fra loro ci sono attivisti che sanno il fatto loro, spesso in perenne lotta con le componenti animaliste più emotive.
Saranno educazione e rispetto a sconfiggere il randagismo, non norme scarsamente applicate
Educazione e divulgazione sono i migliori strumenti per ottenere un reale cambiamento: quando la società riconoscerà davvero il diritto al benessere degli animali e la necessità etica di avere comportamenti responsabili. Attraverso questo progresso culturale si arriverà alla riduzione del commercio di animali come pet, si comprenderà il dovere di essere responsabili nella gestione di cani e gatti. Si chiuderanno le porte a una serie di comportamenti dannosi che oggi sono ritenuti normali. Le leggi servono a correggere le devianze della collettività, non sono uno strumento per educare una società a essere rispettosa dei diritti altrui.
Continuare a invocare nuove norme serve più alla politica, che continua a agitarle senza renderle mai concrete e soprattutto attuate. Quando mancano i controlli, se non viene percepita la gravità dei comportamenti è difficile ottenere sia il cambiamento che la puntuale applicazione. Il percorso culturale è più lento della promulgazione di un decreto, ma è più efficace in quanto permanente, una volta entrato nel comune sentire. Il commercio di pelli e pellicce non è crollato per legge, ma è la consapevolezza delle persone che fa sentire in difetto i pochi che ancora le indossano. Una strada senza ritorno, un cambiamento culturale sempre più diffuso.
In attesa che la cultura cambi ognuno è chiamato a avere comportamenti rispettosi, a cercare di farsi promotore di una cultura che parli di rispetto, di convivenza, di condivisione delle risorse. Avendo la consapevolezza che sia sempre meglio l’uso pacato della conoscenza, piuttosto che il ricorso all’aggressività data dall’ignoranza, che quando non ha sufficienti argomenti usa la prevaricazione per convincere, Perdendo così ogni possibilità di essere credibili.
Animali randagi e turismo, quando arriva la stagione estiva i problemi si amplificano e chi ne paga le conseguenze sono cani e gatti senza padrone. Da una parte sono visti come se fossero rifiuti da nascondere dalla vista dei visitatori, dall’altra sono spesso considerati vittime di pericoli inesistenti. Così per i randagi l’estate, in particolar modo per quelli che vivono in località turistiche, si trasforma spesso in una pessima stagione. Che rischia di avere un unico destino: finire dietro le sbarre di uno dei tanti rifugi per animali indesiderati.
Cani e gatti però non possono essere considerati come rifiuti lasciati in giro, che contribuiscono a dare un’idea di degrado dei contesti urbani. Una visione pericolosa e irragionevole che porta ad adottare quasi sempre soluzioni che non risolvono, ma solo tamponano visivamente un problema. Utilizzando sistemi che ancora oggi vanno dagli avvelenamenti alle catture, messi in atto con il solo scopo di ripulire le strade da presenze indesiderate. Senza preoccuparsi mai delle cause che portano questi animali a condurre una vita da randagi.
Animali randagi e turismo rappresentano un pericoloso binomio, quando l’emotività prevale
Nonostante quello che ancora molti credono il randagismo non si combatte con canili e gattili, ma solo con la crescita culturale. Quel complesso di informazioni e di riconoscimento di diritti che porta a un radicale cambiamento nel nostro modo di gestire, o di non gestire affatto, gli animali con i quali viviamo. Anche se qualcuno ancora pensa che i randagi siano per le strade per la mancanza di strutture destinate ad accoglierli. Un’idea bizzarra quanto sbagliata, come se tutto si potesse incentrare non sul modi di affrontare il problema, per evitare che si crei, ma solo di nasconderne gli effetti. Cosa che sta avvenendo sistematicamente da più di mezzo secolo.
Le amministrazioni pubbliche quasi sempre si ricordano del randagismo solo quando analizzano i costi o quando, come accade spesso, sono oggetto di critiche. Dimenticando che senza intervenire sulla prevenzione, come in ogni cosa, sarà sempre necessario rincorrere gli effetti. I randagi non sono virus sui quali non abbiamo controllo, ma sono i risultati di riproduzioni indesiderate che portano a avere un numero di animali molto superiore a quanti li vogliano ospitare. La sproporzione fra offerta e domanda genera un fenomeno che non ha nulla di occulto, di incomprensibile o di ingestibile.
In un momento storico come questo, dove le strutture per il ricovero dei randagi e degli indesiderati sono strapiene, occorre farsi delle domande, avendo la capacità di trovare delle risposte. Prendere animali dalla strada senza criterio ha portato a una popolazione di animali che non andranno mai in famiglia, restando rinchiusi nelle strutture in quanto difficilmente adottabili o del tutto inadottabili. A causa di problemi comportamentali o di fobie che non possono essere curate in canili o in gattili. Animali che in una casa avrebbero davvero poche possibilità di resistere più di qualche giorno prima di essere restituiti o, peggio, abbandonati.
Prendere cuccioli dalla strada, senza farsi altre domande, non sempre li salva e spesso li condanna
Occorre partire da un presupposto: ogni animale è un individuo con un proprio carattere e temperamento che si forma in giovane età nel periodo di socializzazione. Avviene con i bambini, avviene con gli animali: il contesto in cui crescono è capace di influenzare per sempre il loro comportamento. Un cucciolo di qualsiasi specie quando viene strappato prematuramente alla sua famiglia non riceve le cure parentali, che sono indispensabili per far crescere un individuo equilibrato. Una situazione che rischia di compromettere, per sempre, il suo percorso di vita.
Decidere di prendere un animale dalla strada è una buona azione solo se si trova in una situazione di pericolo reale. Una scelta attenta e motivata, alcune volte sicuramente emotivamente difficile ma giusta: non tutti gli animali sono da salvare. Quando consegniamo un cucciolo a un’associazione o a una struttura non lo abbioamo salvato, ma spesso abbiamo risolto un nostro problema emotivo, scaricando su altri la necessità di trovare una soluzione. Che molto probabilmente non saranno in grado di assicurare al malcapitato animale salvato.
Serve svuotare le strade dai randagi, ma per farlo bisogna limitare le nascite, impedire ai nostri animali non sterilizzati di vagare a piacere sul territorio senza custodia. Bisogna impedire la vendita di animali domestici in rete o nei negozi e realizzare campagne di sensibilizzazione contro le adozioni d’impulso. Occorre informare le persone che l’estetica non è la caratteristica più importante, che non bisogna alimentare un mercato fatto spesso di sofferenze e traffici. Il problema non sono gli abbandoni estivi, un finto problema, ma le scelte irresponsabili fatte ogni giorno dell’anno.
Cani randagi e pubblica amministrazione, un rapporto fluido con un’applicazione normativa a tratti rigida, che sembra fatta apposta per mettere all’ultimo posto il benessere animale. Ultimamente la Regione Campania, con una folgorazione asincrona abbastanza tipica della pubblica amministrazione, pare essersi accorta che i cani randagi sono dei Comuni. Una “scoperta” che sembra essere causata dalla richiesta di uniformare la raccolta dei dati delle regioni, in attesa della tanto annunciata unificazione nazionale dell’anagrafe canina. Così da qualche tempo non si possono più iscrivere in anagrafe gli animali presi per strada dai cittadini, ma nemmeno soccorrerli.
Quando si dice che i cani sono dei Sindaci questo sta a significare che i sindaci, come ufficiali sanitari, hanno l’obbligo di far applicare la normativa che, in sintesi, consiste nel farli catturare per rinchiuderli in un canile. Con tutti i costi derivanti da questa operazione, solo teoricamente intelligente, che ha due conseguenze immediate: generare costi che gravano sui bilanci comunali e creare sofferenza agli animali, che spesso non usciranno più da queste prigioni. Con l’unico vantaggio che va in capo ai gestori privati dei tanti canili che svolgono il servizio in appalto, gonfiando spesso le tasche di soggetti di dubbia moralità e con più di qualche ombra sulla fedina penale.
Cani randagi e pubblica amministrazione: animali senza colpe, spesso condannati al regime di carcere duro con un fine pena mai
Il randagismo è una piaga e questa è una certezza difficile da poter mettere in discussione. Un fenomeno causato dall’uomo, grazie a un rapporto molto variegato e spesso del tutto irresponsabile con gli animali, che dal dopoguerra a oggi nessun governo è riuscito a sconfiggere. Il randagismo ha la stessa pervasività del crimine organizzato, che in parte alimenta, però nonostante questo si continua a contrastarlo poco e male.
Ora i volontari lamentano che non possono neanche più soccorrere un cane dalla strada. Un fatto che in un paese normale sarebbe sacrosanto: il cittadino non deve toccare gli animali randagi perché di loro si occupa la pubblica amministrazione. Ma l’Italia sotto questo profilo sono decenni che non è un paese normale. Così tocca che per soccorrere un cane investito al Sud, ma anche al Nord molto spesso, serva un miracolo, quando non se ne fanno carico associazioni e cittadini.
In mezzo a questo fuoco di sbarramento ci stanno loro, i randagi, spesso presi dalla strada e messi nei canili senza un motivo. Talvolta per troppo amore verso gli animali o per fare soldi facili. Mentre la pubblica amministrazione che dovrebbe sterilizzare, prevenire il randagismo con controlli e sanzioni, educando alla legalità anche in questo settore, si muove con la velocità del bradipo. Paga costi enormi per la custodia dei cani e spende poco e niente per prevenire il randagismo usando l’arma più importante: l’educazione. Una schizofrenia che pare davvero inguaribile.
Per contrastare il randagismo da anni si parla di un cambiamento normativo, che non arriva mai, ma sarà quella la soluzione?
Se le leggi fossero state applicate in modo serio di randagi in giro non dovrebbe essercene più di qualche migliaio, consapevoli del fatto che ci sarà sempre chi non rispetta le regole. In questo modo invece ci troviamo permanentemente in mezzo al guado, senza riuscire a raggiungere la riva. Senza aver compiuto significativi passi avanti nella gestione del fenomeno e con un numero enorme di animali ricoverati nelle strutture. Continuando ad affrontare il problema in questo modo assisteremo impotenti alla perpetuazione senza fine del randagismo.
Invece di colpire chi gli animali, nel bene o nel male, li vuole aiutare sarebbe importante combattere chi ha animali e non li registra in anagrafe, quanti non si occupano dei propri animali facendoli vagare non sterilizzati. Ma anche chi lucra sulle cucciolate casalinghe, sulle adozioni del cuore e su molte staffette, che alimentano il randagismo di ritorno al Nord. Questo è un mondo pieno di chiaroscuri, dove le situazioni si mescolano e dove non tutto quello che sembra mosso da buone intenzioni lo è davvero. Per questo è importante fare molta attenzione, premiando chi lavora con attenzione e rispetto.
La soluzione del problema non passa soltanto attraverso il cambiamento della legge 281, decisamente datata, ma dal rispetto di ruoli e regole. Serve rivedere l’intero fenomeno del randagismo e della gestione dei canili in modo scisso dalla questione sanitaria, come invece avviene oggi. Il benessere deve essere considerato prioritario, arrivando per questo a imporre dei cambiamenti nel nostro rapporto con gli animali. Visti non più come cose ma come individui senzienti e come tali portatori di diritti.
I canili non combattono il randagismo, proprio come i manicomi non cancellano la follia. Luoghi accomunati spesso da un alto tasso di sofferenza e da una scarsa possibilità di trovare una via di fuga. Specie per tutti quei soggetti problematici, complessi, piegati da condizioni di vita inaccettabili e irrimediabilmente segnati nell’anima. Questo non vuol dire che tutte le strutture di ricovero siano luoghi di sofferenza senza soluzione o che i rifugi non servano a trovar casa ai cani più equilibrati, ma sfortunati. Soltanto non bisogna vedere i canili come la soluzione di un’emergenza, che purtroppo non è ancora universalmente considerata tale.
Sono oramai decenni che il randagismo sembra un fenomeno invincibile, che assorbe fiumi di denaro che molto spesso finiscono nelle mani sbagliate. Finanziando una sotto criminalità e talvolta quella organizzata, senza però cambiare la realtà dei fatti, specie nel centro Sud Italia, dove sono tanti gli interessi che ruotano intorno al fenomeno. Con nuovi canili in costruzione, annunciati come successi mentre rappresentano il segno tangibile della sconfitta, e con quelli esistenti pieni a raso. Purtroppo come le strade e le campagne del sud Italia, in una giostra di nascite e catture che sembra non finire mai.
Guardando il fenomeno randagismo con occhio tecnico, senza quei coinvolgimenti emotivi che talvolta complicano e non risolvono, sembra davvero impossibile che non si riesca a invertire la rotta. Dal dopoguerra ad oggi sono state provate due strategie di contenimento: una basata sull’abbattimento massiccio di centinaia di migliaia di animali ogni anno, l’altra su cattura e custodia. Creando molte volte detenzioni che durano per tutta la vita e spesso anche oltre, truffando in questo modo i Comuni che si trovano a pagare anche per cani fintamente longevi, in realtà morti da tempo.
I canili non combattono il randagismo, ma sottraggono risorse importanti alla tutela degli animali
Volendo contrastare davvero il randagismo bisognerebbe in primo luogo aumentare il tasso di rispetto della legalità. In un paese che ha troppe norme, molte delle quali completamente disattese anche grazie alla mancata azione di quanti avrebbero l’obbligo di farle applicare. Inutile fare l’anagrafe canina se poi l’apparato di controllo non si impegna per ottenere l’iscrizione di tutti gli animali di proprietà. Stesso discorso per i veterinari che non segnalano i loro clienti, quando hanno cani sprovvisti di microchip, continuando a accettare che sia il proprietario a poter scegliere. Con buona pace del buon senso, della tutela degli animali e del rispetto delle leggi.
Un gran parte della sconfitta origina proprio dal fatto di tollerare che la parte peggiore della società si comporti senza rispettare le regole. Appare infatti chiaro che i cittadini responsabili si preoccupano di identificare e iscrivere i loro animali, per correttezza e per avere la possibilità di ritrovarli se si perdono. Mentre si tollera chi considera i propri animali uno strumento, una “cosa” che non deve causare responsabilità, rifiutando l’iscrizione. Per sintesi questo significa che in anagrafe sono iscritti gli animali dei cittadini responsabili, che rispettano gli obblighi, mentre mancano proprio gli animali spesso mal gestiti, quelli che alimentano abbandoni e randagismo.
L’illegalità, a ogni livello, se tollerata da decenni, crea un serbatoio infinito di problemi, che sono poi ribaltati con disinvoltura sull’intera collettività. Tradotti in costi di centinaia di milioni spesi ogni anno per custodire i cani, spesso in pessimi canili, da dove potrebbero non uscire mai. Imprigionati in box di pochi metri quadri, in strutture pensate con una logica sanitaria, senza alcuna considerazione per il benessere degli animali ospitati. Strutture talvolta gestite anche da associazioni, per le quali la quotidiana sofferenza sembra sfumata, diviene invisibile nella convinzione che l’amore sia il viatico per ogni male dello spirito.
Passare dalla gestione sanitaria del canile a una maggiormente rispettosa del benessere animale
I canili sono strutture autorizzate secondo criteri eminentemente sanitari, la cui rigida applicazione lascia poco spazio al reale benessere degli ospiti e anche al loro percorso di normalizzazione. Senza strutture modulate sulle esigenze dei cani, sulla loro socialità, sulla necessità di costruire gruppi e non gestire singole esistenze, molti cani resteranno rinchiusi a vita. In canili aderenti a prescrizioni di leggi datate, dove la prevenzione sanitaria ha sormontato ogni altra esigenza. Dove gli animali rischiano di diventare numeri, specie quando chi gestisce ha una connotazione esclusivamente commerciale e i cani ospitati arrivano a essere anche migliaia.
Occorre agire per impedire che i canili si riempiano e questo si può ottenere solo con il rispetto delle norme e con la giusta attenzione verso i diritti degli animali. Rivedendo le disposizioni sul commercio, vietando le esposizioni nei negozi, facendo campagne di informazione che partano dalle scuole, controllando in modo rigoroso le nascite, contrastando le adozioni d’impulso e le staffette che scaricano animali senza criterio. Bene dare speranza ai randagi del Sud, ma solo seguendo buone pratiche che assicurino benessere, smettendo di tollerare trasferimenti che finiscono solo per spostare il problema, da Sud a Nord, senza pensare al futuro dei cani.
Staffette che abbracciano tutte le declinazioni del comportamento umano
Lontani dagli occhi di chi li ha spediti, in buona o cattiva fede, abbandonandoli a un destino davvero buio. Un comportamento da scafisti, che non si vorrebbe vedere, né con le persone, né con gli animali. Per non parlare di adozioni sbagliate, fatte senza controllo trasferendo cani problematici presentati come ideali da inserire in famiglia. Comportamenti che rappresentano la parte peggiore di questo mondo, fatta di soldi chiesti in nero, di veicoli spesso non a norma di legge, di promiscuità e possibile trasmissione di malattie.
Sul versante opposto c’è chi invece opera con giudizio, con attenzione nei confronti degli animali, trasportandone pochi con i giusti spazi, fatturando il lavoro fatto e pretendendo da chi spedisce la corretta documentazione. Trasportando animali sani, vaccinati e identificati, verso un destino migliore, verso una vita da condividere con una famiglia. Un lavoro fatto con coscienza e trasparenza, che aiuta davvero a incrociare positivamente vite.
Il consiglio resta sempre comunque quello di adottare animali presso strutture, parlando con gli educatori, conoscendo i cani o i gatti. Un’adozione è per sempre e deve essere frutto di una scelta ponderata, fatta consapevolmente, conoscendo un pochino almeno chi si decide di accogliere in famiglia, seguendo i consigli di chi quel cane lo conosce davvero, non ve lo racconta sui social.
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