Il cinodromo di Maserada sul Piave, non ancora ufficialmente inaugurato, è un progetto fuori dal tempo, che non tiene conto dei cambiamenti culturali della società. Da tempo in tutto il mondo sono in corso battaglie per arrivare alla chiusura di queste strutture, spesso con successo, mentre questo piccolo comune del trevigiano procede al contrario. Con l’aiuto insospettato di ENCI che per 15 anni gestirà la struttura. Un vero controsenso per un ente che dovrebbe avere a cuore non solo le razze ma anche il benessere degli animali.
Le corse dei cani sono un retaggio del passato; in Italia dove gli ultimi due cinodromi, a Roma e Napoli, si sono chiusi alla fine degli anni ’90, dopo la cessazione di tutti gli altri impianti. Una volta le corse dei cani erano eventi sui quali si poteva scommettere, un’attività che ora non è più possibile praticare legalmente, contrariamente a quanto avviene per i cavalli. Ci si interroga quindi sulle motivazioni che hanno convinto il sindaco di Maserada e la sua giunta a dare vita a questo progetto, che accontenta solo un piccolo numero di appassionati.
Ben sapendo che dietro le competizioni con gli animali si possono celare maltrattamenti, comportamenti scorretti e un giro di scommesse clandestine. L’impianto, che doveva essere inaugurato il 12 giugno, con una giornata di corse, non è stato ancora aperto al pubblico. Ufficialmente in quanto non sarebbe stato ancora ultimato. Ma le motivazioni potrebbero essere anche altre.
Il cinodromo di Maserada sul Piave fa infuriare le associazioni che si occupano di difendere i diritti degli animali
Si è attivato anche Andrea Zanoni, già deputato e ora consigliere della Regione Veneto. Che in un comunicato stampa dice che “si tratta di uno scempio che vede distruggere un prato stabile ad alta valenza ambientale. In un’area tutelata dal Piano faunistico venatorio e di collegamento con l’adiacente sito di Rete Natura 2000 delle Grave del Piave. Soprattutto l’intervento dell’agronomo Claudio Corazzin è stato illuminante, evidenziando come il Piano di assetto territoriale stabilisca che nell’area del Parabae sia vietato realizzare nuovi sentieri e vadano invece protetti e ampliati i prati stabili”.
Un pasticcio che rischia di finire prima in un esposto alla Corte dei conti e che potrebbe finire anche per interessare la magistratura ordinaria. Qualcosa in effetti sembra non funzionare nel progetto e il continuo crescendo di polemiche ha messo questa decisione sotto i riflettori della cronaca. Andranno chiarite le motivazioni che hanno portato il Comune di Maserada a investire una somma ingente in un impianto di questo tipo.
Il Club del levriero difende a spada tratta l’impianto di Maserada, sostenendo che si tratti solo di un circuito per appassionati della razza
La corsa dei levrieri, infatti, prevede un addestramento del cane, che viene condizionato a inseguire una sorta di lepre finta. Un comportamento che è parte dell’istinto predatorio di questa razza, ma che viene amplificato e modellato. Come avviene per i rapaci usati nella falconeria. Cani addestrati a correre dietro una finta lepre, impregnata di odori che la fanno individuare come preda. Un mondo, questo del racing, destinato a piacere più ai padroni che non ai cani.
Senza poter escludere che in questa realtà molto di nicchia, si possa nascondere un giro di malaffare, costituito dalle scommesse clandestine. Che come sempre accade sono in grado di stimolare i peggiori comportamenti umani. E’ ora che qualcuno indaghi a fondo sulle motivazioni che hanno portato l’amministrazione ad accontentare un piccolo numero di privati. Usando fondi che avrebbero potuto essere impiegati per aiutare l’intera comunità di Maserada.
Il binomio criminalità e animali è una realtà molto più presente di quanto le persone possano immaginare. Questa volta sotto gli occhi degli inquirenti è finita un’organizzazione mafiosa, che fra i tanti reati organizzava corse clandestine di cavalli. Per questa ragione la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, ha disposto una serie di misure cautelari. Che nella notte hanno portato all’arresto di 33 persone, da parte dei Carabinieri della locale compagnia.
L’organizzazione mafiosa sembra facesse capo al clan Galli di Messina, che aveva a sua volta stretto accordi con il clan Santapaola di Catania. Così venivano organizzate le corse clandestine su strada, per le quali purtroppo la Sicilia è particolarmente famosa. Anche perché tutto questo mondo gode di grandi complicità, di stalle clandestine dove ricoverare i cavalli, di fantini. E di un robusto servizio d’ordine capace di chiudere intere strade per consentire lo svolgimento delle corse.
Un’organizzazione complessa che, come sempre accade quando parliamo di criminalità organizzata, genera e distribuisce ricchezza sul territorio. Comprando così molte persone e generando una vasta rete di complicità, anche eccellenti, costituita da colletti bianchi che “lavorano” in questo settore. Così in manette è finito anche un veterinario che curava e dopava i cavalli per ordine dei clan mafiosi.
Gli animali generano grandi profitti e per questo il binomio criminalità e animali è così diffuso
Dalle scommesse clandestine la mafia genera grandi profitti, che creano una provvista di soldi freschi e non tracciabili, utili a garantire il controllo del territorio. Ma molte altre sono le attività lucrose, perché le mafie non trascurano nessun settore sul quale possono lucrare. Come la macellazione clandestina di cavalli e bovini, che rappresenta un fenomeno criminale molto presente, con gravi rischi sanitari per la popolazione. Il crimine non si preoccupa di far visitare gli animali sotto il profilo sanitario: li ruba, li traffica, li macella e li immette sul mercato, con la complicità talvolta anche di negozi autorizzati.
Molti dei crimini attuati nei confronti degli animali, come ho scritto nel libro “Cani, falchi, tigri e trafficanti“, accadono negli allevamenti di animali da reddito. Nei quali per massimizzare il profitto non ci fa scrupoli nel maltrattare gli animali, facendoli vivere in condizioni deplorevoli. In tutte le fasi della filiera, che passa dagli allevamenti, ai trasporti per concludersi nei macelli. Talvolta con la “complicità” degli organi di controllo, che non vedono o fanno finta di non vedere quanto accade in queste strutture. In alcune occasioni per colpevole superficialità, altre volte per ricompensate omissioni.
Il traffico di animali protetti dalla CITES, sia vivi che morti, rappresenta un enorme fonte di proventi illeciti, generati rubando biodiversità
Sia che finiscano nelle gabbie di qualche collezionista o come ingredienti della medicina tradizionale cinese gli animali protetti muovono grandissimi interessi. Capaci di corrompere non solo alcuni componenti delle forze di polizia deputate ai controlli, ma anche funzionari governativi, ispettori e veterinari. Grazie al potere garantito dal denaro le organizzazioni criminali riescono a far viaggiare attraverso il mondo ogni genere di animale e vegetale protetto. E per ogni sequestro fatto in porti e aeroporti ci sono tonnellate e tonnellate di scaglie di pangolino e avorio, solo per citare due derivati molto trafficati, che raggiungono illecitamente l’Oriente.
Per non parlare degli animali vivi, più complessi da occultare, specie se di dimensioni ragguardevoli, che viaggiano spesso con false certificazioni. Documenti veri nella forma, in quanto rilasciati dalle autorità amministrative dei paesi d’origine, ma falsi nella sostanza per quanto concerne la loro provenienza legale. Un complesso meccanismo che rende difficili i controlli anche nei paesi di transito, che si trovano di fronte a documentazione formalmente ineccepibile. Non potendo sapere che magari il destinatario non esiste o che quello che compare nei documenti come un centro scientifico sia nella realtà un trafficante.
Sino ad arrivare ai cosiddetti pezzi di ricambio: animali protetti ma nati in cattività, che perdono quindi buona parte della loro tutela giuridica. Spacciati, come per esempio è stato ipotizzato per certe tigri delle quali si parla nel libro, per animali ufficialmente destinati a uno zoo chiuso, mentre in realtà erano più probabilmente destinati a diventare preziosi ingredienti usati nella medicina tradizionale.
Carresi del Molise: 36 persone rinviate a giudizio per gravi reati che vanno dal maltrattamento di animali al doping. Il rinvio a giudizio era stato chiesto dalla Procura di Larino, dopo una serie di denunce fatte dalle Guardie Zoofile dell’ENPA.
Chi pensa che certe manifestazioni, che comportano episodi di crudeltà nei confronti degli animali, possano accadere solo in Spagna deve ricredersi. Anche nel nostro paese non mancano, purtroppo, competizioni e feste tradizionali che causano inutili sofferenze agli animali.
Fra le persone rinviate a giudizio sindaci, amministratori pubblici, organizzatori e partecipanti. Che in alcuni casi avevano pesantemente minacciato quanti contrastavano le gare. Fino a una serie di indagini coordinate dalla Procura che hanno portato all’avvio dell’azione penale, nella quale ENPA, con l’avvocato Claudia Ricci, si è costituita parte civile.
LeCarresi del Molise sono state per anni una spina nel fianco di chi difende i diritti degli animali
Con la scusa delle manifestazioni tradizionali in in Italia sopravvivono ancora diverse feste popolari che impiegano animali. Dal più blasonato Palio di Siena fino a manifestazioni locali che raramente varcano i confini regionali. Ma che non per questo creano minori sofferenze agli animali.
Le Carresi erano state sempre autorizzate dalle amministrazioni comunali, in un caso anche con il parere contrario dei servizi veterinari. Manifestazioni che per poter aver luogo dovrebbero preliminarmente garantire l’assenza di maltrattamenti e la sicurezza degli spettatori. Cosa non rispettata non solo secondo l’ENPA ma anche a parere della Procura di Larino, che ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio.
Il processo inizierà nel giugno di quest’anno e la speranza è che possa avere un ritmo sostenuto, per evitare che si possa arrivare alla prescrizione. Una minaccia che fin troppo spesso rende vani gli sforzi di chi si occupa di tutelare i diritti degli animali. Per questo, nell’attesa di una riforma più incisiva del processo penale, la prescrizione dovrebbe essere esclusa.
Coma mai l’ultradestra difende la corrida in Spagna? Forse lo si può capire guardando i risultati ottenuti dal partito nazionalista VOX. Alle recenti elezioni il partito di Santiago Abascal ha raddoppiato i seggi, ben 52, difendendo anche la corrida. Non solo questa ovviamente ma anche tutti i valori tipici delle formazioni nazionaliste, andando a intercettare gli strati più sofferenti della popolazione. E forse anche quelli con minor cultura e sensibilità.
La corrida per molti spagnoli è un simbolo identitario della cultura del paese, una tradizione che non può essere abbandonata. Ma se questo fosse vero lo è altrettanto il fatto che moltissime persone sono contrarie a queste forme di violenza. Questo avviene soprattutto nelle città e fra gli strati sociali a maggior scolarizzazione. Dimostrando che la cultura spesso rappresenta un ottimo vaccino contro la violenza.
Il destino dei tori e delle corride passa dalla politica
Vox, il partito nazionalista di ultradestra, ovviamente contrario all’indipendenza catalana, ha usato anche la corrida come strumento di convincimento, facendo leva sull’orgoglio nazionale. La corrida sarà anche una tradizione, come lo erano i giochi con i gladiatori contro i leoni ai tempi di Roma, ma oramai è fuori dal tempo. E contrasta con la sensibilità dei popoli europei.
Inevitabilmente scatta una riflessione sull’empatia che è certo sentimento opposto e contrario alla crudeltà, ma anche alla semplice indifferenza. La politica, fra i suoi compiti, dovrebbe avere anche quello di far crescere cultura e rispetto per il prossimo, per aumentare quei valori che portano a una civiltà armonica. Occorrerebbe rifuggire da ogni violenza, mentre questi tempi ci raccontano purtroppo esattamente il contrario.
Ma se i macelli avessero i vetri davvero avremmo una società vegana?
Forse no, nonostante quello che pensava il grande Lev Tolstoj. Sembra un paradosso certo, che però potrebbe nascondere qualcosa di vero, di pericoloso, qualcosa che è sempre vissuto fra le pieghe dell’animo umano. La fascinazione verso la violenza, quel demone che agita la volontà di sopraffazione, di dominio, di potere. Quello che porta una parte della nostra specie a non provare rimorso per comportamenti terribili.
Forse qualcuno potrebbe comprare i biglietti per assistere allo spettacolo. Forse per una componente ancora minoritaria ma da non sottovalutare, potrebbe essere un momento in grado di trasmettere emozioni forti a cervelli anestetizzati da finti miti.
In fondo la violenza è palpabile in questo secolo, è diventata una connotazione sempre più presente nella nostra società. Forse per questo anche la corrida costituisce un argomento politicamente interessante per convincere gli elettori. Forse solletica quella voglia di sangue e arena che oggi pare vada di moda in buona parte della popolazione di quest’indecisa Europa.
Ci sono comportamenti sui quali sarebbe una buona cosa intervenire drasticamente, ci sono forme di accanimento e tortura che non possono lasciare il posto all’indifferenza. Assistere con partecipata emozione ai patimenti di un toro non è una manifestazione culturale, solo la dimostrazione che “il sonno della ragione genera mostri”.
Non sarà Selvaggia Lucarelli a farmi cambiare idea sul Palio di Siena. Nemmeno la sua difesa appassionata di una corsa fuori dal tempo.
Non tutto quello che è tradizione merita di essere difeso. Non tutto quello che appartiene alla storia è un esempio da tramandare.
Ma questo non significa poter insultare Selvaggia Lucarelli soltanto perché ha idee radicalmente diverse. Basta raccontare cosa non si condivide: non si cambiano le opinioni delle persone a suon di insulti. Mai.
Leggendo le argomentazioni di Selvaggia Lucarelli tutto diventa giustificabile, compreso il maltrattamento dei cavalli, ma fors’anche le scommesse clandestine, l’evasione fiscale fatta affittando balconi a prezzi che solo George Clooney potrebbe pagare. Nel nome della tradizione e del sentirsi senese. Un sentiment che nessun altro italiano sembra possa capire.
Tutto diventa folclore, diventa giustificabile. Basta raccontare che i cavalli entrano in chiesa per essere benedetti, mica sfortunati come i cani, o che il direttore della banca va a dormire con il cavallo prima del Palio, invece che con la moglie. Oppure che parte qualche sana scazzottata, che la polizia tollera, perché in fondo son ragazzi, è tifo di quartiere anzi di contrada.
Qui gli animalisti che sbraitano a migliaia sul web, in città si sono avvicinati mezza volta, perché sanno bene che toccare il palio a un senese è come toccare la Boschi a Renzi. E alla fine tengono all’incolumità dei cavalli ma sotto sotto un po’ più alla loro. Qui se succede qualcosa a un cavallo, attorno all’accaduto si crea una cortina di ferro che manco in Birmania attorno alla questione Rohingya. (Selvaggia Lucarelli su quel che accade a Siena).
Forse per il vecchio adagio “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”, mi sarei risparmiato di ironizzare sulla tragedia dei Rohingya. Che certo stanno peggio, molto, molto peggio dei senesi e anche dei cavalli del Palio. Sicuramente, non perché siano umani, ma perché sulle tragedie di questa portata sarebbe meglio restare seri.
Vede signora Lucarelli il punto è uno solo: il Palio di Siena, come ho già scritto ieri (leggi qui) è una tradizione che resta violenta nel suo esasperato e tribale modo di essere vissuta. E i cavalli sono i soggetti su cui questa violenza ricade, senza nessuna possibilità di scelta. Non si può giustificare il maltrattamento di un animale, che parte da prima che la corsa inizi, solo per tradizione.
I senesi possono fare, per quel che mi riguarda, scelte diverse, compreso il trasformare Piazza del Campo in un’arena dove si affrontino a sorteggio i contradaioli, come i guerrieri nubiani facevano al tempo dei romani. Anche loro senza troppa scelta come i cavalli, ma per i senesi sarebbe diverso. Esseri senzienti contro esseri senzienti, motivati, consapevoli e per scelta personale.
Far diventare il maltrattamento di un animale, compiuto seguendo riti tribali, un fatto normale, legittimo, solo perché messo in atto in nome della tradizione mi orripila (restando in tema). Per questo non mi convincerà mai e temo che non lo farà nemmeno con un sacco di altre persone, che animaliste non sono.
Iniziamo in molti a essere stufi di tanta violenza, agita, santificata, difesa. Su uomini e animali.
Altro Palio e altro cavallo morto a Siena: questa volta la morte è arrivata per Raol, il cavallo che correva per la Giraffa.
Contro il Palio si sono usati fiumi di inchiostro, dopo ogni incidente, dopo le inchieste della magistratura, dopo ogni cavallo morto.
Se ne contano più di 50 dagli anni 70, quanto basta per chiederne la cancellazione. La fine di un’epoca, sicuramente. Ma anche un segno di civiltà.
Palio e Siena sono un binomio che pare inscindibile, ma la storia insegna che nulla deve durare per sempre se ci si accorge che è sbagliato. Il Palio non è solo una manifestazione popolare, ma è il collettore di un fiume di danaro (leggi qui). Come dimostra questo palio straordinario.
Fare un Palio di Siena per celebrare la fine della Prima Guerra Mondiale è evidente che sia soltanto un pretesto. La Grande Guerra fu combattuta soprattutto sul fronte Nord-orientale e non tocco certamente Siena, se non per i soldati che furono inviati a combattere. Ma si sa ogni occasione è buona per far festa.
Specie quando le casse del Comune di Siena sono in grave crisi e allora il Palio diventa un modo per rimpinguarle. inventando un’edizione straordinaria. Che è costata una frattura al cavallo della contrada della Giraffa, che si è conclusa con una pietosa eutanasia.
Il Palio non è solo una competizione fatta su una pista sbagliata, ma rappresenta per i cavalli la linea del fronte, anche a seguito di una rivalità esasperata fra le contrade, di un campanile che fa salire la competizione ai peggiori livelli. Senza nascondersi il fiume carsico del denaro che è legato al mondo delle scommesse.
Perdere o vincere il Palio di Siena non è un’accadimento normale, ordinario, che capita in ogni competizione da sempre. Vittoria o sconfitta per un fantino significa altare o polvere, gloria o infamia, sino ad arrivare alla paura e alle minacce. Una contesa che nasce e cresce in modo violento, nel suo essere ancestrale: un rito pagano con connotazioni cristiane, come la benedizione dei cavalli.
Riportando gli uomini a combattere per una preda, con un tifo senza limite, dando vita a una competizione che dovrebbe essere vietata solo per questo. Non ci può essere rispetto per gli animali quando i cavalli sono visti solo come uno strumento per vincere, a ogni costo, anche quello della morte, della sofferenza, del pericolo.
Bisognerà aspettare che ci sia un morto fra il pubblico a causa di un incidente fra i cavalli o che muoiano cavalli e fantini? Bisogna sempre arrivare all’esasperazione delle cose, alla mancanza di senso del limite? Non ci si riesce mai a fermare per tempo?
Il problema non sono gli animalisti, ma il buon senso e quello di patologico che è insito in questo Palio, dove il maltrattamento è già visibile ai canapi, nell’incipit della corsa. La capacità di superare una competizione che non deve avere futuro, non così, non in Piazza del Campo. Non può essere una macelleria per cavalli anche perché giustifica una violenza verso gli animali che la società non accetta più.
Fanno bene le associazioni, tutte e in coro, a chiedere di fermare questa assurdità. Prima che davvero succeda l’irreparabile, prima di scoprire che ancora il peggio non è stato visto.
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