Bocconi avvelenati: fenomeno criminale che si sarebbe dovuto contrastare anche grazie a un app messa a disposizione dei cittadini da parte del Ministero della Salute. Lo spargimento di sostanze tossiche, sotto forma di esche o bocconi, sta prendendo sempre più piede, diventando un fenomeno rilevante sia per quanto riguarda il bracconaggio che per lo spargimento di tossici nei giardini cittadini. Un crimine molto pericoloso, che non ha un obiettivo preciso se non quello di uccidere animali, accettando così il rischio che uno di questi bocconi possa finire anche nelle mani di un bimbo.
Da tempo i Carabinieri Forestali. e non soltanto, si sono dotati di unità cinofile specializzate nella ricerca di bocconi avvelenati, ma purtroppo sono ancora in numero insufficiente rispetto alle richieste e alle segnalazioni che arrivano dal territorio. Lo spargimento di sostanze tossiche non soltanto è un comportamento irresponsabile ma anche un reato in cui risulta complesso riuscire a individuare i responsabili, Una realtà aggravata dalla possibilità di trovare in qualsiasi garden o negozio di bricolage un campionario sterminato di sostanze tossiche messe liberamente in commercio.
L’App realizzata dal Ministero della Salute integra la raccolta dati del portale avvelenamenti, il cui uso è riservato ai medici veterinari, e potrà aumentare il numero delle segnalazioni. Purtroppo però manca quasi del tutto la parte informativa per i cittadini, che non riescono a ottenere dati utili per tutelare i propri animali. L’applicazione infatti non consente di fare una ricerca per zone, non consente di filtrare il periodo e non fornisce indicazioni sullo stato della segnalazione. Rendendo poco appetibile per il cittadino dotarsi di questa app, che potrebbe invece essere molto utile per le segnalazioni di sospetti casi di avvelenamento.
Bocconi avvelenati, un fenomeno criminale che si poteva contrastare con maggior efficacia investendo meglio sulla tecnologia
Nel mese di ottobre questa nuova applicazione è stata presentata al Ministero della Salute come un’arma importante per combattere gli avvelenamenti dolosi. Dimenticando però come il coinvolgimento dei cittadini passi anche attraverso le utilità che questi ricevono, misurabile in termini di sicurezza per difendere i propri animali, grazie alle informazioni ricevute. La tecnologia avrebbe consentito, davvero con poca spesa di restituire ai cittadini informazioni utilissime. come quelle sugli avvelenamenti in atto, filtrabili per Comune e per data.
Da molti anni chi si occupa di contrastare questo fenomeno chieda che venga emanata una norma chiara, che si smetta di adottare ordinanze, che si crei maggior consapevolezza. Senza ottenere alcun risultato. Continuando a consentire la libera vendita di prodotti altamente tossici e pericolosi anche per la salute pubblica. Prodotti usati per confezionare bocconi avvelenati come rodenticidi, lumachicidi e pesticidi vari si trovano in libera vendita in ogni negozio di giardinaggio del paese. Creando tutti i presupposti per una strage continua e silenziosa di animali selvatici e non soltanto.
Su questi temi bisogna cambiare registro chiedendo l’adozione di provvedimenti efficaci
Per arrivare a un cambiamento vero occorre una norma precisa, una raccolta dati certa con evidenza pubblica, una regolamentazione della vendita dei prodotti pericolosi per uomini, animali e ambiente. In modo da poter finalmente arrivare a un contrasto reale, metodico e efficace di un fenomeno facile da mettere in atto e difficile da reprimere. Coinvolgendo i cittadini nella segnalazione di casi sospetti, dandogli per contro informazioni efficaci per tutelare i propri animali, e i medici veterinari liberi professionisti. Che devono diventare la prima linea delle segnalazioni, considerando che proprio loro ricevono le richieste d’aiuto dei proprietari di animali. Denunciando, sempre, ogni caso di sospetto avvelenamento.
L’avvelenamento è un fenomeno che coinvolge molti ambiti: da quello venatorio alla competizione per i tartufi, dall’eliminazione degli animali randagi alla strage dei rapaci causata dai rodenticidi. Non esistono dati certi sul numero degli animali avvelenati e anche facendo una ricerca in rete si resta disorientati. Si passa da notizie gonfiate, basate su dati inesistenti rilasciati da fantomatiche associazioni, a quelle trovate anche su portali pubblici che sono vecchie di anni. Spesso condite da dichiarazioni trionfali che restano, di fatto, soltanto delle enunciazioni senza seguito.
L’accoglienza entusiastica riservata anche dal mondo veterinario a questa app appare francamente poco comprensibile. Mentre sarebbe davvero importante che fossero resi pubblici i dati sui numeri delle segnalazioni arrivate nel 2022 al Portale degli avvelenamenti da parte di tutte le componenti interessate. Per riuscire a comprendere quanto sia reale la volontà di contrastare gli avvelenamenti e quanto si tratti di operazioni di marketing, che poco risolvono rispetto alla tutela reale e al contrasto a questi atti criminali.
Spiedo di uccelli protetti in tempi di Covid, con banchetto fra i dipendenti pubblici della comunità montana della Val Trompia. Potrebbe sembrare il canovaccio di una brutta commedia, ma spesso in Italia la realtà supera, e di molto, la fantasia. Questo è quello che devono avere pensato anche i Carabinieri Forestali (bravi) che sono intervenuti per far andare di traverso ai commensali gli uccelli protetti. Il tutto negli uffici della Comunità Montana, guidata da Massimo Ottelli che risulta in quota PD.
Il presidente si è dichiarato all’oscuro di tutto e ha promesso provvedimenti disciplinari, ma il fatto resta comunque grave. Un reato consumato in strutture pubbliche, da dipendenti pubblici, in tempi di Covid che vietano banchetti e dove vengono cucinati animali protetti. Difficile immaginare di peggio, restando in campo di abusi fatti con soldi pubblici e bracconaggio. Un comportamento che è difficile poter definire meno che vergognoso.
In tempi come questi, dove il rispetto delle regole e gli esempi contano, qualcuno ha pensato che così non fosse. Consentendo a un bracconiere di portare nelle cucine dell’ente pubblico ben 65 uccelli protetti uccisi illegalmente e preparati per sollevare il morale dei commensali. Che sono ovviamente finiti sulle pagine dei giornali di tutta Italia. Una prova generale di arroganza pandemica che ricorda un po’ i ristoranti clandestini dove, in tutto il mondo si serve il bush meat a una clientela disponibile a pagare moltissimo. Anche a rischio di alimentare i pericoli per la salute e l’estinzione di specie protette.
Lo spiedo di uccelli protetti in tempi di Covid parla di senso dell’impunità e di disprezzo di ogni regola
Tanto doveva essere l’idea di avere un consenso generalizzato, forte delle tradizioni di una delle aree più colpite dal bracconaggio, da far abbassare ogni cautela agli organizzatori. Non pensando che qualcuno potesse invece rimanere colpito da tanta arroganza, sino al punto di segnalarlo ai Carabinieri Forestali. Pochi dubbi infatti sul fatto che non si trattasse di un controllo di routine presso la mensa della Comunità montana della Val Trompia, ma di qualcosa di più mirato. Avvenuto in una regione come la Lombardia, che voleva riaprire la caccia ai cardellini.
Considerando che l’uccisione di specie protette è un reato che prevede pene risibili si può auspicare che siano i provvedimenti disciplinari quelli in grado di punire davvero questi fatti. Supera l’accettabile che dei dipendenti, pagati dalla collettività, si possano permettere di usare uffici pubblici per commettere reati. Uno di quei casi in cui il licenziamento sarebbe un provvedimento necessario e auspicabile.
Certo fa sorridere che le critiche maggiori verso l’episodio siano venute proprio dalla Lega, uno dei partiti che maggiormente ha promosso le peggiori modifiche delle leggi sulla caccia. Dimostrando, ancora una volta, come per la politica del Bel Paese ogni argomento si possa prestare, al di là di ogni convinzione, per fare speculazioni politiche. Che spesso passano sulla testa dei cittadini e quasi sempre sulla pelle degli animali.
Ovviamente il fatto ha provocato le proteste delle associazioni locali, da ENPA Brescia alla Lega Anticaccia.
La caccia non è uno sport, era un’attività necessaria per la sopravvivenza quando gli uomini erano un popolo di cacciatori raccoglitori. Ora nella migliore delle ipotesi può essere definita un’attività ludica. Quando non un gioco crudele praticato peraltro su un bene collettivo che è la fauna. L’attività venatoria non ha niente di sportivo sotto qualsiasi angolatura la si osservi. A parte quella di essere inserita fra quelle pratiche riconosciute dal CONI, anche se slegata dall’abbattimento di animali, ma alle altre attività (tiro).
Non si capisce quindi lo scalpore che ha suscitato identica affermazione fatta da Flavio Insinna, conduttore televisivo. Provocando una levata di scudi da parte delle associazioni venatorie. Consapevoli di quanto questa attività sia invisa alla stragrande maggioranza degli italiani. Esclusi i politici che hanno sempre visto nei cacciatori un importantissimo serbatoio di voti elettorali.
Forse è arrivato il momento di ribaltare l’onere della prova. Siano i cacciatori a spiegare ai cittadini che non amano questo loro gioco, perché vada qualificato come sport. Magari iniziando proprio dalla caccia da appostamento ai migratori. Che si pratica seduti dentro un capanno, sparando a uccellini che pesano meno della cartuccia che li ucciderà. Appostamento verso il quale vengono attirati con l’inganno. Attuato usando loro simili ingabbiati che cantano per un’alterazione indotta del comportamento, che proprio non ha nulla di sportivo.
La caccia non è uno sport perché non possiede alcuna caratteristica che la possa far definire come un’attività sportiva
Forse si confondono attività sportive praticate usando armi da caccia, una su tutte il tiro al piattello, con le varie forme di caccia praticate in campagna. Aventi per scopo unico la ricerca e l’abbattimento di un animale, con un rapporto del tutto sbilanciato fra cacciatore e cacciato. Che non uccide per fame ma esclusivamente per divertimento.
ORIGINI DELLO SPORT
Le esercitazioni sportive erano in un primo tempo singole, poi divennero collettive e praticate anche dalle donne sin dal Medioevo; l’esercizio più diffuso e più antico dovette essere la corsa, alla quale si aggiunsero, subito dopo, i lanci e i salti, utili per la caccia e per le guerre. Ben presto emersero altre manifestazioni indispensabili per la sopravvivenza, dalle quali derivarono il nuoto, la canoa, l’equitazione, la lotta, il pugilato, la scherma contemporanee, a cui si aggiunsero giochi con palle costituite di erba e di grossi frutti.
Bisogna attualizzare il concetto di caccia, intesa come abbattimento della selvaggina, per ottenere una diversa regolamentazione della materia. Oramai lontana dalle necessità e riferibile a una mera attività ludica che non ci possiamo più permettere. La difesa della biodiversità imporrebbe la chiusura della caccia, anche considerando il contributo risibile dato al mantenimento degli equilibri faunistici.
Cambiare le priorità, sottraendole alla caccia per mettere al centro la tutela faunistica, il nostro capitale naturale
Occorre un cambiamento legislativo importante, che sposti l’attività venatoria come focus della questione, mettendo al centro il bene collettivo e la tutela della biodiversità. Chiudendo molto, se non del tutto quel cordone ombelicale che lega ai cacciatori la normativa vigente sulla tutela faunistica, lasciando sullo sfondo tutto il resto. Compresi i dritti dei cittadini, di poter fruire della natura senza rischiare una pallottola vagante.
Su questo occorre impegnarsi, facendo crescere un movimento d’opinione meno emotivo ma più attivo, meno di pancia ma più portato al ragionamento. Per creare i presupposti di un cambiamento sociale in grado di far balzare come priorità assolute la tutela ambientale e faunistica fra le priorità del futuro. Per ottenere un cambiamento reale che possa far crescere, come in molti paesi europei, il valore di una reale politica green.
Il piano contro il bracconaggio, in particolare nei confronti dell’avifauna, è stato approvato dalla conferenza Stato/Regioni tre anni fa. Ma sono insufficienti i progressi raggiunti, calcolando che sono quasi esauriti i tempi preventivati dal Ministero dell’Ambiente presieduto da Sergio Costa. Nonostante questo percorso fosse stato attivato per fermare l’ennesima procedura di infrazione europea in tema di caccia e bracconaggio.
Il 30 marzo del 2017 la conferenza Stato/Regioni aveva approvato l’intero piano predisposto dal Ministero dell’Ambiente con ISPRA. Una road map che doveva portare a una serie di misure a tutela dell’avifauna. Per contrastare un bracconaggio che in Italia rappresenta un fenomeno davvero imperante. Anche a causa dei rischi esigui per i responsabili di azioni di criminali nei confronti del nostro capitale naturale.
Una stortura che l’Unione Europea ci aveva richiesto di correggere quanto prima, per non aprire l’ennesima procedura di infrazione, che ci sarebbe costata milioni di Euro. Il nostro paese, infatti, è una delle culle del bracconaggio, con attività che spaziano dalle catture di uccelli canori per spiedi o gabbie alle vasche illegali per la caccia agli anatidi, specie nel Sud del paese.
Il piano contro il bracconaggio nell’aprile 2020 è ancora pieno di azioni incompiute e di informazioni non pervenute
Leggendo il documento redatto dal ministero, nel quale è obbligato a rendicontare lo stato dell’arte della sua esecuzione, ci sono molte informazioni non pervenute e azioni rimaste incompiute. Come l’effettivo recupero delle Polizie Provinciali che rappresentavano un cardine indispensabile per il contrasto al bracconaggio e non solo. Smantellate quasi ovunque in tutto il paese dopo la “quasi abolizione” delle province, al termine di una delle tante riforme incompiute.
Nonostante la loro dichiarata inutilità le Polizie Provinciali, per diffusione e impegno, spesso erano i veri baluardi della tutela contro il bracconaggio, molto più del trasformato Corpo Forestale dello Stato. Ora inglobato nei Carabinieri, disperso in mille compiti e con un organico ridotto rispetto alle necessità. E quindi in questo delicato settore emerge l’importanza del servizio di vigilanza assicurato dal volontariato. Importante, ma che dovrebbe essere ausiliario rispetto a un controllo esercitato dagli enti pubblici.
Ora siamo molto vicini al rischio di incorrere in una nuova procedura di infrazione, in quanto i tre anni non sono serviti a completare il piano nelle parti forse più importanti. L’incremento dei servizi di vigilanza, l’uniformità della legislazione in materia in sede regionale e l’inasprimento delle sanzioni. Tre fronti su i quali la difesa della fauna selvatica ha raggiunto la sua Caporetto. Per ammissione dello stesso ministero.
Sono a macchia di leopardo anche i controlli messi in atto dai Carabinieri Forestali e un cambio di normativa resta sempre all’orizzonte
Secondo il rapporto che prende in esame il 2019 i controlli sono stati molto diversi in base alle regioni, sia su base popolazione che territorio. Così si possono riscontrare 7.773 controlli in Abruzzo, con l’individuazione di 22 reati, contro un numero esiguo di controlli effettuati in Lombardia, solo 2.563 controlli. Che però hanno portato però all’accertamento di ben 250 reati. Dimostrando un tasso di crimini accertati molto elevato, nonostante i pochi controlli effettuati, spesso in concorso con le guardie volontarie.
La pandemia ha le sue colpe, da dividere con il nostro parlamento
Sicuramente la pandemia ha fatto ritardare l’approvazione delle normative, ma vero è che nonostante le buona intenzioni del ministro Costa, le pressioni venatorie restano comunque forti. Quel che è certo è che nessuno voleva metterci mano prima delle elezioni regionali e amministrative. La politica è sempre molto prudente quando sfiora certi argomenti e dobbiamo ringraziare le pressioni dell’Europa. Ora speriamo che il provvedimento riesca a trovare l’approvazione definitiva.
Anche se le sanzioni proposte siano spesso sotto i limiti della sospensione condizionale e non prevedano un sequestro per equivalente dei beni, in relazione agli illeciti guadagni. Sanzioni inadeguate per danni irreparabili. Per questo bisognerebbe calcolare il valore per la collettività di ogni animale ucciso, che andrebbe aggiunto alla sanzione penale.
Per l’orso ucciso in Abruzzo, a Pettorano sul Gizio, la Corte d’Appello dell’Aquila ha condannato il responsabile, che era stato assolto in primo grado, a risarcire le parti civili. Riconoscendo un indennizzo al Parco Nazionale di Abruzzo Lazio e Molise (PNALM) e alle associazioni. Purtroppo non ci sarà condanna in sede penale a causa di un vizio di forma. Ma la sentenza d’appello è della massima importanza.
I fatti risalgono al 2014, quando un orso fu ucciso con un colpo di fucile. Secondo i forestali esploso con l’intenzione di uccidere il plantigrado. Comportamento ammesso inizialmente dallo stesso imputato che aveva detto di aver imbracciato il fucile sentendosi minacciato dal plantigrado. Questa dichiarazione fu però modificata a processo, quando l’imputato dichiarò di aver sparato soltanto perché era inciampato. Stranamente proprio mentre aveva in mano il fucile, puntato sull’orso.
Per l’orso ucciso in Abruzzo nel processo di primo grado anche il Pubblico Ministero chiese l’assoluzione
Un’assoluzione giunta senza valutare il lavoro investigativo compiuto dal personale dell’allora Corpo Forestale dello Stato. Che aveva raccolto testimonianze e dichiarazioni di testimoni e anche dell’indagato il tribunale credette all’imputato. Assolvendolo. Ma le parti civili, prima fra tutte il PNALM, decisero di ricorrere in appello arrivando alla sentenza odierna.
È davvero una sentenza storica – afferma il Presidente del Parco Giovanni Cannata – perché riconosce la responsabilità di un cittadino che ha sparato ad un orso, uccidendolo. Il riconoscimento delle responsabilità, oltre a fissare un principio ineccepibile come è il rispetto della vita di un orso, dà conto anche del lavoro investigativo svolto dal personale dell’ex Corpo Forestale dello Stato.
Dal comunicato del PNALM
Una maggior attenzione da parte di chi è chiamato a giudicare atti gravi, come l’uccisione di un orso marsicano, è fondamentale. Per non trasmettere l’idea che gli atti di bracconaggio possano restare impuniti. In un momento già così complesso per il mantenimento dell’equilibrio naturale. Una sentenza che aiuta le forze di polizia nel loro lavoro per la tutela faunistica.
Il sentimento verso gli orsi in Abruzzo non è paragonabile a quello di molta parte della popolazione del Trentino
Gli abruzzesi sono abituati a convivere con gli orsi da sempre. Avendo un rapporto molto diverso rispetto a quello della popolazione del Trentino, dove l’orso è stato reintrodotto in tempi recenti. Per far crescere una popolazione che stava andando verso l’estinzione. Una presenza, però, alla quale molti residenti non si sono ancora abituati.
E nei paesi del parco sono abituati alle visite degli animali, che arrivano nei centri urbani senza timori. Guardati con simpatia dalla gente e dando vita a un indotto economico importante per la collettività. Grazie a quanti vanno a visitare il parco per godere della natura, specie in periodi difficili come questi.
Come non comprendere quindi la soddisfazione dell’ente parco nei confronti di questa sentenza, che tutela il simbolo stesso del parco d’Abruzzo.
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