Sarà vietato uccidere i pulcini maschi, ma se non ci saranno ritardi questo divieto entrerà in vigore in Italia solo nel 2026, grazie a un emendamento presentato alla Camera. In Francia questo divieto sarà in vigore dal 2022 e molto probabilmente lo stesso farà la Germania. Attualmente si stima che ogni anno l’industria delle uova uccida, in Europa, circa 260 milioni di pulcini maschi, inutili per l’industria. Animali che a poche ore dalla nascita verranno tritati o soffocati per essere poi utilizzati come sottoprodotti.
Eppure la tecnologia per evitare questa inutile strage è disponibile da tempo, consentendo di selezionare le uova contenenti soggetti maschi. Che verrebbero distrutte prima della completa formazione dell’embrione. Con un costo che potrebbe oscillare intorno ai due centesimi, una piccolissima cifra che eliminerebbe almeno una parte della sofferenza legata alla produzione di uova. Ma il nostro paese purtroppo è sempre un passo indietro su tutte le questioni che riguardano il benessere animale.
Una realtà che, come in questo caso, non viene abbastanza enfatizzata e contrastata. Come dimostrano i toni entusiastici che si possono leggere sui giornali sull’approvazione di questo emendamento, che rappresenta un passo avanti molto tardivo, con una scadenza fissata fra cinque anni. Un tempo che avrebbe potuto e dovuto essere abbreviato. Esiste la tecnologia ma manca la volontà de produttori, più disposti a investire sul marketing che sulla diminuzione dei maltrattamenti.
Sarà vietato uccidere i pulcini maschi, ma bisogna impedire alle aziende di fare pubblicità ingannevoli sul benessere animale
Le persone sono diventate molto più attente alle questioni del benessere animale, ma sono spesso tratte in inganno da pubblicità e etichettature. Che spesso raccontano mezze verità, se non vere e proprie bugie. Il benessere animale negli allevamenti intensivi è una chimera, che non potrà mai essere raggiunta con quelli che sono gli attuali standard. Come continuano a dimostrare le ripetute inchieste sotto copertura effettuate periodicamente sui nostri allevamenti.
Una mistificazione della realtà agevolata da definizioni non chiare, che portano a credere alle bugie degli uffici marketing delle grandi aziende. Se parliamo di polli, ad esempio, una delle mistificazioni sul benessere è l’allevamento a terra. Capannoni dove i polli da carne sono allevati per circa 40 giorni. Il tempo che oramai serve per passare da pulcino a pollo idoneo a finire nel banco frigorifero del supermercato. Questi animali vivono in condizioni di sovraffollamento, hanno a disposizione per la loro misera esistenza solo di qualche centimetro quadro di spazio. Tanto da essere sottoposti a costanti terapie farmacologiche per limitare i danni causati da una vita stressante condotta in luoghi insalubri.
Il benessere animale dovrebbe essere definito secondo standard scientifici, non secondo leggende create dal legislatore e usate dai produttori
La politica dei piccoli passi è sicuramente migliore di quella dello stare immobili. Ma il racconto di azioni e omissioni, di decisioni e rinvii, deve essere posto in modo chiaro e non ingannevole. Questo non vale ovviamente solo per quanto riguarda i pulcini ma è una realtà che riguarda tutta la filiera degli allevamenti di animali, per giunta sovvenzionati dalle tasse degli stessi consumatori che si cerca di circuire. Un comportamento a livello europeo e nazionale davvero inaccettabile.
Per queste ragioni rischia di essere altrettanto ingannevole presentare come una vittoria l’emendamento che dovrebbe vietare di far tritare i pulcini fra 5 anni. Definire il futuro divieto come un passo avanti sarebbe stato più corretto e meno mistificatorio che parlare di vittoria. Per correttezza nei confronti dell’opinione pubblica, per non usare negli stessi modi gli strumenti di marketing degli allevatori. La prima regola per richiedere e ottenere un impegno nel cambiamento dovrebbe essere quella di dimostrarsi affidabili e credibili.
La grande bugia del benessere animale viene raccontata ogni giorno, il più delle volte a sproposito, abusando della buona fede di chi ascolta. Potrebbe sembrare un concetto radicale, estremista, ma nella realtà non è così. Vengono definite condizioni di benessere, specie per quanto riguarda gli animali destinati alla produzione di alimenti, realtà incompatibili con i più elementari bisogni. Cercando di convincere il consumatore che questa sia una situazione veritiera.
L’assenza di maltrattamenti fisici, una vita trascorsa in ambienti decorosamente puliti non rappresentano condizioni sufficienti. Il benessere di un essere vivente è più complesso e ricco di significati dell’esistenza in vita. Il concetto vale per gli uomini ma anche per gli animali, che hanno necessità uguali, pur nella nella diversità, per sentirsi in una una condizione di equilibrio. Eppure mai come in questi anni si sta cercando di dar credito a una grande illusione: il benessere animale. Misurato non secondo le necessità di bisogni specie specifici, ma quasi sempre sull’assenza di maltrattamenti fisici.
Secondo queste valutazioni stanno bene anche gli animali dei peggiori zoo e parchi tematici, quelli che stanno in gabbia nelle nostre case, quelli che mangiamo. Potrebbero stare bene anche gli orsi rinchiusi a Casteller, se solo disponessero di qualche metro quadro in aggiunta. Ma tutto questo può essere considerato solo come una grande illusione, una manipolazione della realtà oggettiva, filtrata attraverso concetti non veritieri o semplicemente falsi. Che spesso permeano le leggi che regolamentano le condizioni di vita degli animali non umani.
La grande bugia del benessere animale trova in Italia la sua apoteosi, con tanto di enti certificatori
Al fine di assicurare un livello crescente di qualità alimentare e di sostenibilità economica, sociale e ambientale dei processi produttivi nel settore zootecnico, migliorare le condizioni di benessere e di salute degli animali e ridurre le emissioni nell’ambiente, è istituito il «Sistema di qualità nazionale per il benessere animale», costituito dall’insieme dei requisiti di salute e di benessere animale superiori a quelli delle pertinenti norme europee e nazionali, in conformità a regole tecniche relative all’intero sistema di gestione del processo di allevamento degli animali destinati alla produzione alimentare, compresa la gestione delle emissioni nell’ambiente, distinte per specie, orientamento produttivo e metodo di allevamento
Estrapolato dall’articolo 224 bis del decreto rilancio
Se qualcun mai potesse pensare che il testo dell’articolo possa essere applicabile solo alle produzioni bio e agli animali allevati liberi al pascolo si sbaglia. Possono ottenere le certificazioni anche gli allevamenti di suini della bassa Padana e le vacche degli allevamenti intensivi. Purché la produzione avvenga nel rispetto delle previsioni del disciplinare. Così, come al Monopoli, si ritorna in prigione senza passare dal via, come dichiarano molte associazioni. Il problema è certo nei contenuti, forzati però dall’abuso dei termini: più che di benessere animale bisognerebbe parlare di “animali allevati seguendo le previsioni normative”. Concetto sicuramente meno rassicurante, ma decisamente più onesto.
Le operazioni di greenwashing che illudono i consumatori e le necessità di riformare la sanità veterinaria
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» dice il giovane Tancredi al Principe di Salina nel Gattopardo. L’esemplificazione pratica è quella di dare una forma illusoria al cambiamento, certificando un benessere che non esiste, e non solo negli allevamenti di animali da reddito. Il benessere è uno stato molto più articolato da quello normalmente inteso, che racchiude la possibilità di ogni animale di vivere una vita secondo le sue esigenze, specie specifiche. I tecnici racchiudono questa situazione nella frase “possibilità di svolgere il proprio etogramma”.
Sarebbe forse troppo pretendere il diritto alla felicità, ma certo bisognerebbe almeno avvicinarsi al dovere della verità. Eliminando semplificazioni che ingannano l’opinione pubblica e non migliorano certo la vita degli animali. Per questo sembrerebbe opportuno arrivare a una multidisciplinarietà anche nel servizio sanitario pubblico, non lasciando soltanto ai veterinari la valutazione sul benessere. I tempi sono maturi per ottenere l’ingresso di etologi, biologi e altre categorie che possano dare valutazioni molto più articolate. Senza scartare nemmeno la psicologia laddove studia le relazioni fra uomo e animale.
Non lasciamo che le lobby degli allevatori e di chi guadagna, seppur lecitamente, dalle attività commerciali con animali, siano in grado di influenzare le decisioni sugli standard di benessere reale. Grazie anche a campagne informative basate sulle più avanzate tecniche di marketing, che riescono a ingannare i consumatori. Lo dobbiamo agli animali, lo dobbiamo alle nostre coscienze.
Allevamenti intensivi e benessere animale sono due realtà incompatibili fra loro, nonostante gli sforzi fatti dal marketing e dalle aziende di settore. Attente e preoccupate per la sempre maggior attenzione che l’opinione pubblica ha nei confronti delle condizioni di vita degli animali e dei maltrattamenti che spesso sono costretti a subire. Tanto da attivarsi per proporre un’immagine di queste fabbriche di proteine molto diversa dalla realtà dei fatti.
Tutto ruota intorno alla magica parola benessere, che può essere intesa in molti modi diversi. A seconda della preparazione di chi la utilizza e della capacità di corretta valutazione fatta dai consumatori. Che sono spesso indotti in errore, non conoscendo affatto i reali bisogni di un bovino, piuttosto che di un maiale. In questo modo tutto rischia di basarsi su un fattore estetico e di aspetto degli allevamenti. Dove tutto può essere pulito e ordinato, come nella foto, senza però rispettare le necessità degli animali.
Gli allevatori non sono tutti uguali, alcuni sono pessimi, maltrattano gli animali fisicamente, fanno vivere gli animali in condizioni indecenti e si preoccupano solo del profitto. Altri hanno stalle pulite e ordinate, dove gli animali vengono correttamente seguiti sotto il profilo della gestione. Senza subire maltrattamenti fisici, nei limiti previsti dalle normative che regolano il settore. Ma dall’assenza di maltrattamenti fisici al benessere reale degli animali ce ne corre molto. Proprio per le modalità legate alla produzione.
Allevamenti intensivi e benessere animale: il marketing racconta al consumatore molte favole
Che ci siano in giro per il mondo allevatori stolti e crudeli non credo sia una novità. E’ parte della natura umana il fatto che accanto alle brave persone ci siano i delinquenti, ma strumentalizzare questi fatti per interessi personali è grave tanto quanto il maltrattamento degli animali.
Tratto dall’articolo di Alessandro Fantini su Ruminantia
Certo che i criminali esistono in ogni settore produttivo e su questa affermazione non ci possono essere dubbi. Ma anche chi rispetta le regole è soggetto a realizzare condizioni di allevamento che non sono in grado di poter garantire benessere agli animali, che molto spesso non hanno nemmeno la possibilità di calpestare un prato. Così per contrastare le visioni dell’opinione pubblica, sempre più contraria al maltrattamento degli animali, vengono creati progetti come “Stalla Etica”.
Gli allevamenti intensivi sono finalizzati all’ottimizzazione delle produzioni e gli intervento migliorativi proposti rappresentano soltanto un maquillage di una situazione drammatica. Che con il tempo e la regolamentazione del settore ha trasformato in legale una forma di maltrattamento molto sottile, ma certo non meno impattante sul benessere psicofisico degli animali. Questo non sulla base di una supposta antropomorfizzazione di esseri riconosciuti come senzienti, ma sulla trasformazione scenica di gravi carenze, fatte apparire come valori.
Vacca reale e realtà virtuale: ma sarà vero benessere? Migliora la vita dei bovini grazie all’uso dei visori che mostrano la realtà virtuale per tranquillizzare gli animal? Oppure è un modo di ingannare gli animali considerando che negli allevamenti non hanno possibilità di vivere sui pascoli? Molti quesiti con poche certezze se non quella che i visori servono per far credere alle vacche di non essere in una fabbrica di proteine ma in mezzo alla natura.
In questo modo sembra che gli gli animali -secondo chi ha studiato questa soluzione applicata all’allevamento- siano più tranquilli. Questa tecnica non è pensata per migliorare le condizioni di vita delle vacche, ma solo per aumentare produttività e qualità del latte. Un animale meno stressato produce di più e meglio. Non potendo farlo vivere in condizioni ottimali si cerca di ingannare il suo cervello con la realtà virtuale.
Gli studi sono stati portati avanti dal Ministero dell’agricoltura e dell’alimentazione della regione di Mosca, che lo ha pubblicato sulla sua pagina web. Per valutare altri sistemi per incrementare la produzione, dopo le spazzole rotanti, installate anche in alcuni allevamenti italiani.
La vacca reale può vivere meglio grazie alla realtà virtuale?
La vita negli allevamenti resta quella di sempre con gli stessi problemi, che possono essere mitigati per aiutare gli animali ad avere una vita migliore, ma non completamente risolti. Le spazzole, i ventilatori, la possibilità di farsi la doccia sono accorgimenti da vedere in modo positivo in quanto rompono la routine degli animali, non rappresentano una soluzione.
Costituiscono piccoli miglioramenti che non devono alterare, specie nel consumatore, la percezione del disagio o della sofferenza. Nel ciclo produttivo degli allevamenti intensivi la parola benessere non esiste, possono esserci soltanto condizioni di vita migliori o peggiori. Se per benessere si intende la possibilità di sentirsi in equilibrio con l’ambiente circostante.
In questo periodo l’attenzione dei consumatori verso il benessere animale è molto accresciuta ed è per questo molte pubblicità sottolineano questo aspetto dell’allevamento. Ma non tutto quello che viene raccontato corrisponde al vero e spesso le azioni di marketing parlano in modo ingannevole. Servono quindi consumatori attenti, che capiscano che la riduzione dei consumi di carne è il miglior inizio per aumentare il benessere degli animali.
Le vacche che portano il visore non possono muoversi
Un animale con addosso il visore per la realtà virtuale non è in grado di potersi spostare autonomamente. Questo vuol dire che le vacche mentre usano il visore devono stare legate. Diversamente rischierebbero di farsi molto male.
Così si arriva al punto: questi visori non migliorano la qualità della vita degli animali ma la peggiorano. Rendendoli dipendenti ancora di più dall’uomo, rendendo la loro vita ancora più difficile. Un falso benessere, un finto divertimento, una vera tortura.
Sarò un maiale ma non credo a Coop, non senza verifiche perché il tempo delle aperture di credito sul benessere animale è finito, massacrato dalla realtà degli allevamenti intensivi, dalla logica del profitto, da una filiera spesso vergognosa.
Il pensiero suino mi è stato stimolato dall’amico Guido Minciotti, fortunato ideatore del blog 24zampe, persona che ci mette anima cuore e grande lealtà nel suo lavoro. Fatemelo dire la lealtà non è dote comune, la possiedono i cani e pochi altri e quando ne trovi fra gli umani li annusi subito.
Così quando a un mio tweet perplesso mi ha chiesto un parere, impossibile da declinare nei fantastici 140 caratteri di Tweetter, ha innescato la mia voglia di raccontare per esteso la questione, perché non credo (senza riserve) a Coop e alla sua filiera rispettosa per gli animali, senza antibiotici e con le galline allevate a terra.
@IlPattoTradito Mi fido molto del tuo giudizio: xchè non credi a telecamere in stalle e macelli, “allevamenti aperti” e riconoscimento @CIWF_IT per galline?
Chi mi segue sa che sposo sempre la linea della riduzione del danno, più vicina e ragionevole del tutto e subito. Questo però non significa accettare che una catena della grande distribuzione, a cui va dato atto di essere molto più rispettosa verso gli animali di altre, faccia di un progetto di medio periodo, con contenuti almeno altalenanti, una campagna del tipo “mangia sano e garantisci benessere agli animali”.
Partiamo dalla questione galline ovaiole per la quale Coop è stata premiata nel 2010 da CIFW, associazione per l’allevamento rispettoso, per aver scelto di non vendere più uova di galline allevate in batteria, ma solo a terra. Sicuramente una certa lungimiranza va riconosciuta a Coop, ma le galline allevate a terra vivono tutta la vita in capannoni a alta intensità, non vedono la luce e hanno a disposizione uno spazio non molto diverso. Nessuno si immagini galline che razzolano sull’aia.
Arriviamo ora alla carne senza antibiotici, fattore di grande appeal sui consumatori, che però spesso confondono la storia con la geografia: la loro salute con il benessere animale, l’assenza di antibiotici (che deve ancora venire) con una mutata condizione degli animali degli allevamenti intensivi. Lo dice anche l’Huffington Post (leggi qui).
Gli antibiotici non servono per curare i bovini dalle malattie (possibili come per gli uomini) ma da patologie derivanti dalla promiscuità, dal numero eccessivo, dalla mancanza di adeguata ventilazione, da malattie provocate dall’alimentazione visto che abbiamo fatto diventare degli erbivori puri, granivori, considerando che li alimentiamo prevalentemente a mais.
Insomma sarò un maiale ma non credo a Coop (senza verifiche) perché vanno bene le telecamere in allevamenti e macelli (dovrebbero essere obbligatorie da domani e collegate in modo più efficace delle slot machine), va bene l’eliminazione degli antibiotici, ma la verità è che se volessimo allevare gli animali in modo rispettoso, e lo dico per gli onnivori, bisognerebbe pensare a carne e uova con un costo di 4/5 volte superiore. Il resto sono solo spot!
Si devono fare grandi passi indietro, non avanti, tornando a un’agricoltura che non sia industria, ripensando i consumi di carne, dicendo la verità sul rapporto proteine animali/proteine vegetali/consumo di acqua. Occorre che gli onnivori rimodulino quantomeno la loro dieta e che sul benessere animale non si costruiscano set da Mulino Bianco: la gallina Rosita è un trucco elettronico, la gallina ovaiola è ancora una realtà terribile.
E perdonate se anche in futuro prossimo sarò un maiale ma non credo a Coop (senza verifiche)!
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