La difficile convivenza con gli orsi in Trentino è come la punta dell’iceberg, che rivela una parte del problema, nascondendo la volontà di dominare la natura. Per meglio comprendere la questione bisogna sgombrare il piano della comunicazione dalla narrazione spesso troppo emotiva, viziata da alcuni falsi miti. Un lungo elenco di affermazioni che si può sintetizzare nell’affermazione, priva di senso, relativa all’eccessivo numero di orsi, ma anche di lupi. Come se l’enunciazione di questo concetto potesse dimostrare la volontà di convivere con i grandi carnivori, purché il loro numero non sia superiore a X. E sotto X si nasconde l’intero iceberg.
I problemi di convivenza non sono dati dai numeri, ma dai comportamenti e far credere il contrario è come nascondere il problema. Se in Trentino ci fosse una popolazione di 50 orsi qualcuno si sentirebbe di garantire che non ci sarebbe la possibilità di incidenti con gli umani? Ma se anche i lupi fossero la metà qualche scienziato potrebbe affermare che sparirebbero le predazioni sugli animali domestici? La risposta è evidentemente negativa, perchè non è una questione di risorse, sovrabbondanti in natura per entrambe le specie, ma di gestione, di regole, di volontà. Eliminare uno, due, dieci orsi soltanto perché questo tranquillizzerebbe la comunità non è la chiave di volta per risolvere il problema.
Continuando a coltivare il falso mito che sia la gestione umana a creare i presupposti della convivenza, si sottrae al discorso la responsabilità dei nostri comportamenti. Si altera il ragionamento spostando sul numero e sulla densità, il problema, ma questa è una scorciatoia per saltare alla conclusione di un ragionamento complesso. Che deve includere la nostra presenza sul territorio, il comportamento un po’ arrogante che ci porta a credere, fin da piccoli, che l’uomo sia il titolare di ogni diritto. Capace di piegare la natura ai suoi bisogni, unico dominatore di un mondo asservito ai nostri bisogni.
La difficile convivenza con gli orsi in Trentino e con i lupi nell’intero stivale rivela la nostra incapacità di creare equilibrio
Molti studiosi cercano di far comprendere il concetto, peraltro non così difficile, che la vita sul pianeta sia fatta di relazioni e di interazioni. Un concetto dal quale non possiamo sottrarci, nemmeno usando tutta la demagogia di questo mondo. Però la polarizzazione del conflitto spesso serve proprio a chi questo ragionamento non lo vuole proprio sentire. Aiutando i politici a assumere il ruolo di paladini di un equilibrio che quasi sempre non hanno idea di come ricreare. Il punto, infatti, non è la gestione ma la divisione, il rispetto degli ambienti, la comprensione del fatto che una parte del territorio appartiene al mondo naturale.
Il punto ora pare la divisione fra quanti vogliono abbattere o imprigionare gli orsi e quanti sostengono che non devono essere toccati. Che descritta così ricorda gli scontri fra tifoserie. Ma non bisogna cadere in questo tranello, che permette di liquidare il problema classificandolo come scelta irrazionalmente emotiva. La chiave di ogni ragionamento sta nel fatto che, tranne l’uomo, gli animali si trovano in equilibrio con l’ambiente che li ospita. Senza questo equilibrio tutto è perduto, sul medio periodo e noi siamo parte di quel tutto.
Certo ci sono le esigenze produttive, esistono le ragioni economiche ma esiste come interesse umano prevalente il poter vivere sul pianeta. Affrontando il problema in modo concreto, urgente e certamente con un grosso prezzo da pagare, non hai predatori, non agli animali ma al ciclo della vita e all’equilibrio. Per questo da tempo il grido d’allarme degli scienziati afferma, inascoltato, che sia necessario proteggere integralmente un terzo di terre emerse e oceani.
Proteggere un terzo di terre emerse e oceani è una necessità, non certamente un capriccio
Guardate con attenzione questo video, non è prodotto da un’associaziuone ambientalista ma dalle Nazioni Unite. Non è un capriccio di pochi, ma è una necessità oramai diventata innegabile.
Abbiamo bisogno di lasciare che almeno un terzo del pianeta sia considerato anbiente naturale intangibile e non possiamo pensare di proteggere il territorio peggiore. Occorre capire che dobbiamo ripiegare, riconsiderare e pensare in modo diverso: non sono orsi e lupi a casa nostra ma siamo noi che abbiamo invaso i loro territori. Un concetto che noi uomini facciamo fatica ad accettare anche quando si tratta dei diritti dei nostri simili. I risultati di questo potere egoistico e straripante è sotto gli occhi di tutti. Pochi però vogliono capire ragioni e cause, ma se scavassero non troverebbero equità e pace, ma denaro e potere.
Per questo, anche per questo, diventa urgente comprendere, analizzare e cercare di capire. Non fermandosi ai titoli ma cercando i contenuti, provando a capire anche quello che non ci piace, come la gravità e l’urgenza di cambiare modelli di vita. Il problema non è l’orso che sbrana un cinghiale o un tenero capriolo, il problema siamo noi che sbraniamo il pianeta e i nostri simili. Serve sottrarre, non aggiungere: meno allevamenti, meno energie fossili, meno arroganza, meno pregiudizi. L’unico ingrediente da aggiungere senza limiti è il rispetto.
Combattimenti fra cani: sgominata gang che operava nel Nord Italia per arrivare a far combattere i cani fino in Serbia. Dove sembra non essere così difficile aggirare i divieti in materia, dove queste lotte avvengono con regolarità. Lo rivela un’inchiesta condotta dalla Procura di Sanremo, che scoperchia un calderone fatto di maltrattamenti, droghe e sostanze proibite e complicità. Senza poter scordare il solito fiume di denaro che scorre sempre alimentato dai cimini contro gli animali.
L’indagine è stata condotta dalla Squadra Mobile della questura di Imperia ben sette anni fa, come rivela un articolo pubblicato in questi giorni su La Stampa. Un tempo davvero lungo che rischia di non lasciare spazio a condanne definitive. Il tempo trascorso dalla commissione dei reati, che finiranno sul tavolo del GUP di Imperia il 17 aprile, rischia di vanificare lo sforzo investigativo. Calcolando i tempi per la prescrizione di molti reati introdotti dalla riforma, che impedirà quasi certamente che possano arrivare al terzo grado di giudizio.
Reati molto gravi, con una serie di aggravanti, che sono costati indicibili sofferenze agli animali impiegati nei combattimenti. Si va dall’associazione per delinquere al maltrattamento di animali, dal falso al divieto di combattimento e all’uso di sostanze dopanti. Questa non è la prima indagine che avviene sul territorio italiano che vede la definizione di una rete criminale che arriva nei paesi dell’area balcanica. Il fenomeno, pur essendo riservato a un pubblico molto ristretto, muove grandi interessi economici. Legati ai profitti derivanti dalle scommesse clandestine. Gestite da organizzazioni mafiose che usano i combattimenti fra animali per fare soldi facili, con rischi limitati.
Combattimenti fra animali, la gang sgominata rischia molto poco visto il tempo trascorso e le normative in vigore
La notizia dell’udienza davanti al GUP di Imperia Anna Bonsignorio ha suscitato abbastanza scalpore sui media. I fatti sono molto gravi e il numero delle persone coinvolte nei combattimenti clandestini, individuati dalla Polizia di Stato, è rilevante. Ma questo probabilmente non basterà per ottenere davvero giustizia. In alcuni casi l’assenza di condanne potrebbe consentire a figure professionali, come i veterinari coinvolti, di continuare il loro lavoro come se nulla fosse successo.
Chiunque si sia interessato di combattimenti fra animali ha un’idea ben precisa di quanto questi eventi siano cruenti. Ci si indigna per molti maltrattamenti, terribili, ma probabilmente si fatica a comprendere le violenze a cui viene sottoposto un cane da combattimento. A partire dall’addestramento, al potenziamento della muscolatura per arrivare alla desensibilizzazione al dolore, a un’aggressività incredibile nei confronti dei conspecifici. Grazie a sevizie, botte, collari elettrici, antidolorifici e sostanze dopanti.
Questa violenza, subita dal cane senza possibilità di difesa, può essere tollerata e vissuta solo da una persona priva di scrupoli, di empatia e della minima compassione. Criminali che sono feccia umana, che non provano pietà nei confronti di uomini e animali, a loro volta dopati dall’adrenalina dei combattimenti e delle scommesse, dei soldi che scorrono a fiumi, come se trafficassero droga. Uomini che hanno una grande capacità criminale, imprenditoriale e organizzativa, che denota un’intelligenza messa al servizio del malaffare, sulla quale bisognerebbe fare delle riflessioni.
Organizzare, fiancheggiare o assistere a combattimenti criminali è un segnale di pericolosità sociale da tenere sotto stretto controllo
La violenza è spesso soggetta a pesi e misure diverse, a seconda dei luoghi, delle vittime e dei contesti, senza spesso preoccuparsi che il problema è la “qualità” e nn il soggetto verso la quale è rivolta. Chi è disponibile ad assistere a un combattimento all’ultimo sangue fra cani, non è un bullo di periferia, ma una persona priva di valori morali tanto da compiacersi di fronte alla violenza. I latrati, l’odore del sangue, gli occhi… Queste persone sono potenzialmente pericolose, vanno assoggettate a misure di prevenzione come l’obbligo di firma e di dimora, il divieto di possedere e svolgere lavori con soggetti fragili come minori, diversamente abili, anziani, animali. Per sempre o almeno sino a quando un giudice non valuti l’efficacia di un serio percorso riabilitativo.
Maltrattamento animali e processo penale: con la riforma potrebbero aumentare le sacche di impunità per chi compie crimini contro gli animali. La tanto discussa modifica della procedura penale potrebbe far estinguere molti processi, sia per intervenuta prescrizione che per durata degli stessi. Un rischio che riguarda tutti i reati, evidenziato in modo molto netto da figure di spicco della magistratura inquirente. Che non hanno esitato a parlare di falcidie dei procedimenti penali e di impunità assicurata per molti criminali,
Se le previsioni sono a tinte fosche per quanto riguarda i procedimenti per reati di mafia e corruzione non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere ai reati considerati “minori”. Minacciati dalla prescrizione, ma anche dalla durata massima dei riti che la nuova riforma potrebbe stabilire, rendendo molto difficile poter arrivare a una condanna definitiva. La giustificazione è quella di ridurre i tempi della giustizia penale, che in Italia sono inaccettabili: un obbligo che ci viene giustamente imposto dall’Europa.
Ma se la riduzione delle tempistiche è sacrosanta lo è altrettanto avere certezza della pena e colpevoli puniti. In un paese in cui la prescrizione già è causa di un diritto all’impunità dei responsabili. Eliminare la prescrizione significherebbe impedire tutte quelle strategie processuali che dilatano all’infinito i tempi. Fin troppo spesso l’obiettivo dei bravi avvocati, quando difendono imputati con scarse possibilità di cavarsela, è proprio quello di raggiungere la prescrizione.
Il maltrattamento di animali nel processo penale è quasi sempre considerato un reato minore
Avendo operato nel contrasto dei crimini contro gli animali, da prima dell’attuale norma che regola il procedimento penale, posso affermare con certezza che la normativa vigente è piena di “trappole” che dilatano i tempi. Come la necessità di formare la prova in aula, senza che chi giudica possa avere accesso agli atti non irripetibili compiuti dalla Polizia Giudiziaria. Una modalità di svolgimento del processo che complica la fase processuale, costringendo alla citazione di un gran numero di testimoni che dovranno ripercorrere azioni fatte anni prima. Di cui potrebbero ricordare poco o nulla, se non hanno redatto atti impeccabili.
Già oggi, con l’attuale normativa, in tribunali oberati di procedimenti, si può dire senza tema di smentita che almeno un terzo dei procedimenti relativi a maltrattamenti di animali vadano prescritti. Alcune volte già durante il primo grado, altri nel tempo che intercorre nei tre gradi di giudizio. Il risultato è che i procedimenti particolarmente complessi, come quelli relativi al traffico dei cuccioli e alla contraffazione dei documenti, spesso portano soltanto a condanne di primo grado.
La riforma non deve essere uno strumento per garantire impunità, ma deve portare a una modernizzazione della macchina della giustizia
I nostri tribunali sono costantemente sotto organico: mancano pubblici ministeri, assistenti, cancellieri e giudici. Senza scordare che ancora oggi i fascicoli viaggiano spesso su carelli spinti dai commessi piuttosto che sulla rete. L’informatizzazione è parziale in ogni complesso passaggio giudiziario e sono proprio queste strozzature che allungano a dismisura i tempi della giustizia.
Intervenire sulla durata dei processi, limitando i tempi per poterli svolgere e lasciando in vigore la prescrizione non è una soluzione, ma solo una toppa messa a un sistema vecchio e logoro. Una scorciatoia per poter adempiere alle richieste dell’Europa, cercando di nascondere ai cittadini che la politica ha sempre reso complicato il lavoro giudiziario, invece che agevolarlo. Negando che la colpa delle lungaggini sia da cercare in chi legifera e non in quanti applicano le leggi.
Abbiamo bisogno di avere una giustizia efficace, che sia in grado di ristabilire un reale potere di deterrenza contro il crimine
Da cittadino che ha frequentato tribunali e procure dico che questa idea di riforma non mi piace. E non lo dico soltanto per essere stato dalla parte dell’accusa perché negli anni, per le mie attività, sono stato anche indagato e processato. Per reati non commessi, però so perfettamente cosa voglia dire stare sul banco degli accusati, e quanto non sia piacevole, specie da innocenti. Ma questo non può vedermi favorevole al sacrificio della giusta applicazione della norma, sull’altare della velocità del procedimento.
La prescrizione e l’improcedibilità velocizzeranno i tempi di una giustizia volutamente asfittica, costretta a fare valutazioni già oggi su chi mandare sotto processo. In Italia l’azione penale sarebbe obbligatoria, ma il carico di lavoro obbliga le Procure a fare delle scelte, con i pubblici ministeri sommersi dai fascicoli, E così finisce che l’azione penale resta obbligatoria solo sulla carta, e questa non è giustizia.
Si potrebbe pensare di agire sulle denunce contro ignoti, che intasano gli uffici giudiziari anche quando la speranza di identificare il responsabile è nulla. Per non parlare delle notifiche, dei riti processuali, di un’informatizzazione carente e non omogenea. Se questa ipotesi di riforma passasse con i contorni che si delineano la tutela di animali e ambiente sarà sempre più lontana e meno efficace. Ma anche la possibilità di ottenere giustizia per i cittadini.
Pene che non lasciano il segno, non servono da deterrente, anzi dimostrano che il crimine paga. Costa meno una sanzione e un processo piuttosto che adeguare gli impianti. Che nel corso degli anni avranno garantito ingenti guadagni. Ottenuti sulla pelle degli animali, di migliaia di animali che saranno passati da quell’allevamento. Certamente verificato e autorizzato dal servizio veterinario pubblico. Una storia che si ripete in ogni angolo della penisola e che, percentualmente, solo poche volte arriva nelle aule di giustizia
Da quel che è dato di conoscere alla multa non è seguita la confisca degli animali oggetto del maltrattamento. Che anche se già macellati avevano un numero di soggetti identificabile: quello rinvenuto durante l’ispezione dei NAS che ha portato alla condanna. Che avrebbe potuto portare a una quantificazione economica equivalente, considerando che resta obbligatoria la confisca degli animali maltrattati. Causando, se applicata, un effettivo danno agli allevatori, e questo si avrebbe potuto costituire un deterrente. Per quanti maltrattano gli animali per ottenere maggiori profitti.
Maiali maltratti responsabili processati, ma se non c’è danno economico per chi maltratta serve a poco una condanna
Quando una gran parte delle situazioni che creano sofferenza sono causate dalle strutture, dalla densità e dalle modalità di allevamento è difficile credere che non siano state rilevate. Da chi aveva il dovere di garantire condizioni di vita minime, che rispettino almeno i già scarsi parametri di legge. Questa è la vera cause delle continue scoperte, da parte delle associazioni, di allevamenti lager:chi deve controllare spesso non lo fa con la dovuta severità, ma usando il metodo “così fan tutti”.
Purtroppo servirà a poco inasprire le pene per chi maltratta gli animali, se non verranno previste sanzioni più pesanti nei confronti di chiunque agevoli la commissione dei reati legati al maltrattamento. Esiste infatti una verità che non può essere smentita: ogni azienda ha un proprio veterinario e quest’ultimo, come esercente una professione sanitaria ha l’obbligo del referto. Che impone di segnalare all’Autorità Giudiziaria qualsiasi situazione possa costituire reato, anche solo in ipotesi.
Le promesse di modifiche legislative per tutelare gli animali sono molte, ma poi la traduzione in realtà resta troppo spesso una speranza
Nonostante una revisione della legge sembri imminente, manca sempre l’effettiva svolta. E le promesse modifiche restano per gli animali un miraggio che non riesce a tradursi in reali e maggiori tutele. L’errore è stato, da sempre, quello di consentire di allevare animali guadando principalmente al profitto e raramente a condizioni di vita minime e accettabili. Così con l’andare del tempo sono state rese legali una serie di attività e condizioni di allevamento che, pur legali, costituiscono una sofferenza costante.
La speranza, sempre più concreta, è che si diffonda la carne prodotta in laboratorio, capace di creare fonti proteiche senza sofferenza, ma anche senza causare danni ambientali. Questo è il futuro, come dimostra il fatto che sempre più investitori stiano finanziando ricerca e produzioni sperimentali. Che ci libererà per sempre dalla crudeltà e dalla sofferenza che per profitto abbiamo inflitto a miliardi di esseri viventi.
Il binomio criminalità e animali è una realtà molto più presente di quanto le persone possano immaginare. Questa volta sotto gli occhi degli inquirenti è finita un’organizzazione mafiosa, che fra i tanti reati organizzava corse clandestine di cavalli. Per questa ragione la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, ha disposto una serie di misure cautelari. Che nella notte hanno portato all’arresto di 33 persone, da parte dei Carabinieri della locale compagnia.
L’organizzazione mafiosa sembra facesse capo al clan Galli di Messina, che aveva a sua volta stretto accordi con il clan Santapaola di Catania. Così venivano organizzate le corse clandestine su strada, per le quali purtroppo la Sicilia è particolarmente famosa. Anche perché tutto questo mondo gode di grandi complicità, di stalle clandestine dove ricoverare i cavalli, di fantini. E di un robusto servizio d’ordine capace di chiudere intere strade per consentire lo svolgimento delle corse.
Un’organizzazione complessa che, come sempre accade quando parliamo di criminalità organizzata, genera e distribuisce ricchezza sul territorio. Comprando così molte persone e generando una vasta rete di complicità, anche eccellenti, costituita da colletti bianchi che “lavorano” in questo settore. Così in manette è finito anche un veterinario che curava e dopava i cavalli per ordine dei clan mafiosi.
Gli animali generano grandi profitti e per questo il binomio criminalità e animali è così diffuso
Dalle scommesse clandestine la mafia genera grandi profitti, che creano una provvista di soldi freschi e non tracciabili, utili a garantire il controllo del territorio. Ma molte altre sono le attività lucrose, perché le mafie non trascurano nessun settore sul quale possono lucrare. Come la macellazione clandestina di cavalli e bovini, che rappresenta un fenomeno criminale molto presente, con gravi rischi sanitari per la popolazione. Il crimine non si preoccupa di far visitare gli animali sotto il profilo sanitario: li ruba, li traffica, li macella e li immette sul mercato, con la complicità talvolta anche di negozi autorizzati.
Molti dei crimini attuati nei confronti degli animali, come ho scritto nel libro “Cani, falchi, tigri e trafficanti“, accadono negli allevamenti di animali da reddito. Nei quali per massimizzare il profitto non ci fa scrupoli nel maltrattare gli animali, facendoli vivere in condizioni deplorevoli. In tutte le fasi della filiera, che passa dagli allevamenti, ai trasporti per concludersi nei macelli. Talvolta con la “complicità” degli organi di controllo, che non vedono o fanno finta di non vedere quanto accade in queste strutture. In alcune occasioni per colpevole superficialità, altre volte per ricompensate omissioni.
Il traffico di animali protetti dalla CITES, sia vivi che morti, rappresenta un enorme fonte di proventi illeciti, generati rubando biodiversità
Sia che finiscano nelle gabbie di qualche collezionista o come ingredienti della medicina tradizionale cinese gli animali protetti muovono grandissimi interessi. Capaci di corrompere non solo alcuni componenti delle forze di polizia deputate ai controlli, ma anche funzionari governativi, ispettori e veterinari. Grazie al potere garantito dal denaro le organizzazioni criminali riescono a far viaggiare attraverso il mondo ogni genere di animale e vegetale protetto. E per ogni sequestro fatto in porti e aeroporti ci sono tonnellate e tonnellate di scaglie di pangolino e avorio, solo per citare due derivati molto trafficati, che raggiungono illecitamente l’Oriente.
Per non parlare degli animali vivi, più complessi da occultare, specie se di dimensioni ragguardevoli, che viaggiano spesso con false certificazioni. Documenti veri nella forma, in quanto rilasciati dalle autorità amministrative dei paesi d’origine, ma falsi nella sostanza per quanto concerne la loro provenienza legale. Un complesso meccanismo che rende difficili i controlli anche nei paesi di transito, che si trovano di fronte a documentazione formalmente ineccepibile. Non potendo sapere che magari il destinatario non esiste o che quello che compare nei documenti come un centro scientifico sia nella realtà un trafficante.
Sino ad arrivare ai cosiddetti pezzi di ricambio: animali protetti ma nati in cattività, che perdono quindi buona parte della loro tutela giuridica. Spacciati, come per esempio è stato ipotizzato per certe tigri delle quali si parla nel libro, per animali ufficialmente destinati a uno zoo chiuso, mentre in realtà erano più probabilmente destinati a diventare preziosi ingredienti usati nella medicina tradizionale.
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