Cani randagi e pubblica amministrazione, un rapporto fluido con un’applicazione normativa a tratti rigida, che sembra fatta apposta per mettere all’ultimo posto il benessere animale. Ultimamente la Regione Campania, con una folgorazione asincrona abbastanza tipica della pubblica amministrazione, pare essersi accorta che i cani randagi sono dei Comuni. Una “scoperta” che sembra essere causata dalla richiesta di uniformare la raccolta dei dati delle regioni, in attesa della tanto annunciata unificazione nazionale dell’anagrafe canina. Così da qualche tempo non si possono più iscrivere in anagrafe gli animali presi per strada dai cittadini, ma nemmeno soccorrerli.
Quando si dice che i cani sono dei Sindaci questo sta a significare che i sindaci, come ufficiali sanitari, hanno l’obbligo di far applicare la normativa che, in sintesi, consiste nel farli catturare per rinchiuderli in un canile. Con tutti i costi derivanti da questa operazione, solo teoricamente intelligente, che ha due conseguenze immediate: generare costi che gravano sui bilanci comunali e creare sofferenza agli animali, che spesso non usciranno più da queste prigioni. Con l’unico vantaggio che va in capo ai gestori privati dei tanti canili che svolgono il servizio in appalto, gonfiando spesso le tasche di soggetti di dubbia moralità e con più di qualche ombra sulla fedina penale.
Cani randagi e pubblica amministrazione: animali senza colpe, spesso condannati al regime di carcere duro con un fine pena mai
Il randagismo è una piaga e questa è una certezza difficile da poter mettere in discussione. Un fenomeno causato dall’uomo, grazie a un rapporto molto variegato e spesso del tutto irresponsabile con gli animali, che dal dopoguerra a oggi nessun governo è riuscito a sconfiggere. Il randagismo ha la stessa pervasività del crimine organizzato, che in parte alimenta, però nonostante questo si continua a contrastarlo poco e male.
Ora i volontari lamentano che non possono neanche più soccorrere un cane dalla strada. Un fatto che in un paese normale sarebbe sacrosanto: il cittadino non deve toccare gli animali randagi perché di loro si occupa la pubblica amministrazione. Ma l’Italia sotto questo profilo sono decenni che non è un paese normale. Così tocca che per soccorrere un cane investito al Sud, ma anche al Nord molto spesso, serva un miracolo, quando non se ne fanno carico associazioni e cittadini.
In mezzo a questo fuoco di sbarramento ci stanno loro, i randagi, spesso presi dalla strada e messi nei canili senza un motivo. Talvolta per troppo amore verso gli animali o per fare soldi facili. Mentre la pubblica amministrazione che dovrebbe sterilizzare, prevenire il randagismo con controlli e sanzioni, educando alla legalità anche in questo settore, si muove con la velocità del bradipo. Paga costi enormi per la custodia dei cani e spende poco e niente per prevenire il randagismo usando l’arma più importante: l’educazione. Una schizofrenia che pare davvero inguaribile.
Per contrastare il randagismo da anni si parla di un cambiamento normativo, che non arriva mai, ma sarà quella la soluzione?
Se le leggi fossero state applicate in modo serio di randagi in giro non dovrebbe essercene più di qualche migliaio, consapevoli del fatto che ci sarà sempre chi non rispetta le regole. In questo modo invece ci troviamo permanentemente in mezzo al guado, senza riuscire a raggiungere la riva. Senza aver compiuto significativi passi avanti nella gestione del fenomeno e con un numero enorme di animali ricoverati nelle strutture. Continuando ad affrontare il problema in questo modo assisteremo impotenti alla perpetuazione senza fine del randagismo.
Invece di colpire chi gli animali, nel bene o nel male, li vuole aiutare sarebbe importante combattere chi ha animali e non li registra in anagrafe, quanti non si occupano dei propri animali facendoli vagare non sterilizzati. Ma anche chi lucra sulle cucciolate casalinghe, sulle adozioni del cuore e su molte staffette, che alimentano il randagismo di ritorno al Nord. Questo è un mondo pieno di chiaroscuri, dove le situazioni si mescolano e dove non tutto quello che sembra mosso da buone intenzioni lo è davvero. Per questo è importante fare molta attenzione, premiando chi lavora con attenzione e rispetto.
La soluzione del problema non passa soltanto attraverso il cambiamento della legge 281, decisamente datata, ma dal rispetto di ruoli e regole. Serve rivedere l’intero fenomeno del randagismo e della gestione dei canili in modo scisso dalla questione sanitaria, come invece avviene oggi. Il benessere deve essere considerato prioritario, arrivando per questo a imporre dei cambiamenti nel nostro rapporto con gli animali. Visti non più come cose ma come individui senzienti e come tali portatori di diritti.
La morte di Simona Cavallaro, avvenuta in Calabria per uno sfortunato incontro con alcuni cani da guardiania, non dovrebbe essere considerato un incidente. Il decesso è stata causato da alcuni pastori maremmani che vigilavano su un gregge di pecore, che erano stati lasciati senza custodia. Come purtroppo spesso avviene non solo in Calabria ma in molte parti del paese.
La colpa non è dei cani e naturalmente nemmeno della ragazza, vittima dell’incoscienza di chi ha lasciato gli animali senzaadeguata vigilanza. Una morte che oggi tutti dicono, a cominciare dal governatore della Calabria, potesse essere evitata. Un’affermazione che nulla toglie al dolore di quanti le volevano bene e che, invece, amplifica le responsabilità di chi doveva controllare. E che come spesso accade in Italia, non lo ha fatto oppure ha svolto i controlli in modo superficiale.
La morte di Simona Cavallaro è la conseguenza di decenni di omissioni e scarsi controlli, in una regione con una gestione del randagismo inesistente
Gli investigatori stanno accertando se i maremmani posti a protezione del gregge fossero stati regolarmente identificati e iscritti in anagrafe. In questo caso stiamo parlando di cani da lavoro, di un soggetto che alleva pecore e che, come tale, dovrebbe essere sottoposto a periodici controlli da parte dei servizi veterinari. Quindi tutti gli animali, pecore e cani, avrebbero dovuto essere di censiti nelle varie anagrafi per ottemperare alle leggi. Se così non fosse sarà ora necessario capire di chi siano le responsabilità e chi abbia omesso i controlli.
Un altro punto dolente riguarda la custodia degli animali al pascolo e dei cani adibiti alla loro vigilanza. L’abitudine di lasciare incustoditi gli animali lasciati liberi sui terreni dei pascoli, specie se affidati alla sorveglianza dei cani, è oramai considerato un comportamento normale. Che consente di abbassare i costi, di non avere personale che vigili sugli animali e, magari, di svolgere anche un’altra attività lavorativa. Così fare l’allevatore diventa un lavoro complementare, con tutte le problematiche che questo comporta.
In caso di incidenti agli animali o di problemi per le persone, come capitato alla povera Simona, nessuno si troverà sul posto per poter richiamare i cani. Animali che sanno svolgere benissimo il loro lavoro: quello di proteggere il gregge da qualsiasi tipo di accadimento esterno che venga interpretato come una minaccia. Quanto accaduto non è un caso fortuito, ma il frutto di un comportamento irresponsabile che è stato indirettamente la causa della morte della ragazza.
I cani dei pastori, lasciati senza controllo, sono una delle cause del randagismo dilagante in Calabria, combattuto con veleno e canili lager
Il vagantismo dei cani di proprietà, non sterilizzati e lasciati liberi di girare sul territorio, amplifica in modo incontrollato il randagismo. Un fattore ben noto a chi si occupa di studiare il fenomeno, ma che sembra essere completamente sconosciuto a chi dovrebbe occuparsi di contrastarlo. Eppure le amministrazioni pubbliche sono sempre in prima linea nel lamentarsi per i costi causati dalla proliferazione dei cani randagi. Senza però mettere in atto azioni concludenti, che siano diverse dal rinchiudere i randagi nei canili.
Appare quindi fuori luogo la dichiarazione del governatore della Calabria Spirlì, che solo ieri ha commentato la morte di Simona qualificandola come “una tragedia immane che poteva e doveva essere evitata. Non si può morire in questo modo, a vent’anni“. Un commento che potrebbe essere accolto soltanto se ci fosse certezza che la regione Calabria avesse messo in campo tutti gli sforzi possibili per prevenire casi come quello accaduto. E, purtroppo, così non è.
La morte di Simona potrebbe essere vista come la conseguenza di altri reati e non come un drammatico incidente
La vita di Simona è stata spezzata per sempre e questa per adesso è la sola tragica certezza. La speranza che le cose possano cambiare, invece, sembra destinata a restare soltanto una speranza. Che difficilmente troverà concretezza, dal momento che anche su questa vicenda calerà il solito velo d’oblio. Che lascerà ancora una volta immutata la realtà calabrese per quanto riguarda la gestione dei pascoli, la responsabilità e il controllo dei pastori, la gestione di canili e randagismo.
L’opinione pubblica, non solo calabrese, vorrebbe vedere un maggiore impegno della politica, delle amministrazioni e dei servizi veterinari pubblici nel cambiare una realtà della quale la Calabria non può andare fiera. Un cambiamento che deve obbligatoriamente passare dall’accertamento delle responsabilità: è davvero ingiusto morire a vent’anni, solo per essere andati a camminare in un bosco.
In un mondo che si alimenta di fake news il pregiudizio fa più danni della realtà. Facendo percepire da troppi il lupo come un pericolo, basandosi anche sulla leggenda della sua reintroduzione, falsa ovviamente. Come falsa è quella che riguarda la sua pericolosità per l’uomo, considerando l’assenza di aggressioni dimostrate da oltre 150 anni. Purtroppo la favola di Cappuccetto Rosso e quelle create da certa stampa e dal mondo venatorio hanno alterato il modo di percepire il lupo.
Come è stato scritto e detto più volte il lupo, al pari di tutti gli altri animali, non è buono o cattivo. Fa soltanto la sua vita, quella per il quale l’evoluzione lo ha plasmato. Ponendolo al vertice della catena alimentare, che sin dai primordi è costituita da predatori e prede. Che sono restate in armonico equilibrio sino a quando noi uomini abbiamo smesso di essere cacciatori raccoglitori, molti millenni fa.
Il pregiudizio dell’uomo che vede il lupo come pericoloso è duro a morire, mentre il bracconaggio imperversa
Secondo le stime dei ricercatori che hanno seguito in questi anni il progetto MirCO Lupo, gestito dal Parco nazionale dell’Appennino tosco Emiliano, il bracconaggio incide in modo pesante sulla popolazione del predatore, senza fortunatamente compromettere la sua esistenza. Il lupo è un animale adattabile, opportunista, intelligente e con grande mobilità sul territorio. Capace di avanzare se l’ambiente è favorevole, ma anche di ripiegare quando le condizioni non gli consentono scelta.
Lo ha già dimostrato nel dopoguerra, quando dopo essere stato perseguitato in ogni modo, anche mettendo taglie sulla sua testa che venivano incassate dai cosiddetti lupari, cacciatori pagati per sterminarli. In quegli anni bui per la specie il lupo si è rifugiato nelle foreste dell’Abruzzo e della Calabria, resiliente e paziente. Per poi tornare a colonizzare lo stivale. Quando l’abbandono della montagna e l’abbondanza di prede, che i cacciatori con ripopolamenti sconsiderati gli avevano messo a disposizione, avevano consentito la sua ripresa. Grazie anche alle misure di protezione che negli anni ’70 vennero garantite alla sua specie, da allora ritenuta particolarmente protetta.
Ora il lupo vive in pianura come in montagna e si avvicina all’uomo quando questo crea le condizioni favorevoli. Magari aprendo una mensa per il predatore, che essendo versatile bilancia volentieri la sua dieta fra prede e carogne. Approfittando delle carcasse degli animali che troppi allevatori smaltiscono illegalmente. Ma anche mettendo fine alla vita di animali morenti che vengono buttati ancora vivi nelle concimaie, per risparmiare sui costi di abbattimento e smaltimento. Pratiche illegali, certo, ma chi conosce questo mondo sa quanto siano diffuse.
Si stima che il bracconaggio incida sulle cause di morte dei lupi per una percentuale che varia dal 20 al 30%
Sulla base di queste stime, ancora imperfette, i ricercatori ritengono che che il rinnovamento della popolazione dei lupi avvenga mediamente ogni tre anni. Ma l’incidenza del bracconaggio è sottostimata: essendo reato uccidere i lupi spesso i bracconieri applicano la regola delle tre “S”: spara, scava, seppellisci. Sottraendo le prove sulle che testimonierebbero uccisioni illecite. Dimostrando che il pregiudizio dell’uomo è molto più pericoloso per il lupo, di quanto non lo sia il predatore per la nostra specie.
I tempi sono maturi per rivedere le necessità della comunicazione e guardare a ogni progetto come un singolo anello di una lunga catena. Comunicando l’importanza di vedere il nostro capitale naturale in modo olistico, interconnesso come in effetti lo è sul serio. Non serve la difesa di una specie se questa viene vista come una realtà a se stante. Occorre capire che l’ambiente deve essere mantenuto in equilibrio. Senza demandare la gestione alla politica e al mondo venatorio, troppo legati, troppo interessati, nel caso del lupo, a alimentare la paura verso i predatori.
Combattere randagismo diventa possibile solo pianificando, lo insegnano anche le recenti vicende del canile di Palermo che provocano grandi scontri fra i molti, troppi, contendenti.
Nel frattempo attestano senza dubbio il fallimento delle politiche del comune. E non solo! La verità non è così difficile da vedere: in troppi su cani e canili ci lucrano, le amministrazioni vedono i cani solo come un problema che genera un costo, continuando a spendere soldi nel colpevole tentativo di cercare di prosciugare il mare a secchiate.
Mancano progetti di periodo e così ciclicamente, come da noi avviene spesso purtroppo, i problemi evolvono prendendo le sembianze dell’emergenza e solo a quel punto, sempre a quel punto, iniziano gli interventi, si cerca di tamponare, si aprono nuove praterie in cui qualcuno cerca un posto al sole o anche solo un momento di visibilità.
Dietro la gestione dell’emergenza, non solo quella del randagismo, c’è una volontà precisa, scientifica, di iniziare a occuparsi del problema solo da quel momento in avanti: l’emergenza giustifica lo scardinamento delle procedure, consente di aggirare ogni pianificazione e anche di non avere piani di periodo.
Il randagismo è gestito sempre come un’emergenza, ma non è un sisma
Serve solo uscire dall’emergenza, nel minor tempo possibile e poco importa se questa si ripresenti poco dopo, creando danno agli animali, ai cittadini, alla comunità costretta a abdicare alla legalità in nome dell’urgenza.
Così nel caso del randagismo nascono e proliferano le esigenze di trasferimenti, di staffette, di interventi straordinari: tutto questo comporta l’inevitabile giro di danaro che da sempre è più o meno nascosto dietro e dentro il business del randagismo.
Passata l’emergenza, come già successo a Palermo, i lavori di ristrutturazione del canile si fermano o non partono proprio e una vecchia e pessima struttura si riempie nuovamente di cani, sino alla prossima emergenza.
Partono i cani dal canile di Ragusa, partono i cani dal canile di Palermo, continuano gli indegni bonus offerti per l’adozione di un cane, anche di centinaia e centinaia di euro. Decisamente troppi per non far accorrere disperati e gente di malaffare.
Così sfacciati da essere venduti come notizie positive dal politico di turno che le sventola sui giornali, ma in realtà sono operazioni di marketing, offerte sottocosto fatte sulla pelle dei cani.
Cani mandati in canili al massimo ribasso
La realtà parla invece di soluzioni che non arrivano, di un randagismo che non arretra, di affari fatti sui cani e di enormi costi che potrebbero e dovrebbero trasformarsi in fatti positivi che, invece, non accadono.
Il canile di Palermo è la dimostrazione che si può combattere randagismo solo pianificando interventi di medio e lungo periodo. Anche a costo di assumere posizioni scomode, impopolari in un periodo di demagogia al potere, di populismo imperante! Diversamente questa sarà un’eredità che perpetueremo ai nostri discendenti, dopo secoli di progetti senza sbocco e dopo fiumi di denaro in gran parte finiti in tasca alle ecomafie.
Fare quattro conti in tasca al randagismo canino, sfogliando il dossier Animali in città di Legambiente, evidenzia l’esborso di cifre rilevanti che vanno però quasi tutte in unica direzione: i canili.
Ma se i canili assorbono quasi tutte le risorse e non servono a contrastare i fiumi di cani che derivano da riproduzioni incontrollate, inconsapevoli, irresponsabili perché non si cercano soluzioni diverse? Se la contrazione del randagismo fosse il core business di un’azienda privata questa avrebbe da tempo i libri in tribunale.
Secondo i dati di Legambiente, raccolti in modo molto attento valutando le metodiche impiegate, emerge che oltre il 76% delle risorse destinate a questo capitolo di spesa sono state assorbite dalla gestione dei canili e dal mantenimento degli ospiti, con standard qualitativi che vanno purtroppo dal canile lager alla struttura modello. Tutto questo ha ovviamente un costo che tradotto in moneta ammonta a 97.000.000, dico 97 milioni, di euro per il solo anno 2014. Stupisce il dato che riguarda la gestione delle strutture che nel 54,79% dei casi è svolta da associazioni e solo nel 34,24% risulta essere in mano a aziende o cooperative.
Questo dato andrebbe letto anche in modo diverso e cioè in che percentuale comuni, aziende e associazioni gestiscano il numero complessivo di cani presenti e forse letto così potrebbe riservare delle sorprese. Le aziende spesso gestiscono canili da moltissimi posti e quindi potrebbero essere percentualmente meno, pur gestendo un numero di cani molto più alto.
Altro tasto dolente risulta essere l’anagrafe canina, ancora gestita a macchia di leopardo dalle regioni, senza un unico sistema informatico nazionale dalla cui mancanza deriva l’assenza di un unico database.
Nel 2014 la maglia nera dei cani anagrafati spetta a Avellino con la poco edificante media di un cane ogni 722,2 cittadini, seguita a distanza da Grosseto con un cane ogni 341 abitanti. Una voragine in cui sono scomparsi migliaia di cani mai iscritti in anagrafe, considerando che la media nazionale residenti/cani risulta essere di un cane ogni 7,87 abitanti. Fino a che la popolazione canina e felina non sarà iscritta nella quasi totalità in anagrafe da questi animali fantasma deriverà una quota importante di randagi.
Legambiente parla poi di un tasso molto variabile per il destino dei cani che entrano in canile: in alcuni capoluoghi ogni 4 cani catturati ben 3 trovano una soluzione (comprese le restituzioni ai proprietari per smarrimento) mentre ci sono casi, come Trapani, dove per ogni 30 cani incanilati solo uno trova una soluzione positiva, andando ovviamente a creare sacche di cani destinati a una detenzione infinita nei canili.
Secondo quanto dichiarano a Legambiente Comuni e ASL sparse sul territorio quasi tutti sono in prima linea nel controllare il rispetto delle normative poste a tutela degli animali, affermando addirittura che in due comuni su tre, fra i capoluoghi di provincia, esiste un servizio dedicato di polizia locale. Sono i misteri di un paese che pare esserci sulla carta e dentro le statistiche ma che troppo spesso scompare quando qualcuno alza il telefono per richiedere un intervento. La realtà racconta però altro e dimostra con la sola cronaca che, dagli allevamenti ai canili, i maltrattamenti sono all’ordine del giorno nonostante i controlli. Troppe volte le sanzioni vengono applicate a seconda della convenienza dei controllori: maggiori le sanzioni amministrative che entrano nelle casse di chi eroga il servizio, minori le più severe sanzioni penali per le quali ASL e Comuni non incassano nulla.
Un mondo fatto di molte sfaccettature, di dati che non corrispondono alla realtà dei fati e che, talvolta, sono solo verosimili. Così ci si continua a dibattere, specie nelle regioni meridionali, in situazioni inaccettabili per quanto concerne il randagismo. Soprattutto senza vedere prospettive di risoluzione.
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